martedì 24 luglio 2018

Transfagarasan, Transilvania, Trans-Romania. (5)

L’itineranza termina. 
E’ ora di riconsegnare l’auto – cauzione salva! – e di prendere il famoso bus 783 dall’aeroporto Otopeni fino al centro di Bucarest. In effetti, non avendo fretta, è davvero molto comodo – ed economico – come mezzo per arrivare nel centro della città.

Prima della riconsegna, c’è il tempo di visitare il monastero di Snagov, dove pare riposino le spoglie mortali di Vlad l’impalatore.
[semp'iss] 
Il parcheggio è vuoto. Ma è un parcheggio? Sembra il cortile di una casa privata. 
Il monastero è su un’isoletta del lago Snagov. Un ponte di legno la collega alla terraferma.
Le tavole del ponte sono incurvate, e poiché piove ancora, cariche di acqua. 
L’apertura di gambe a compasso non mi risparmia i piedi a zuppa. 
Sull’isolotto mi accolgono tre cani. 
Sembrano pacifici. 
Ci sono delle case con gli orti. E cavallini liberi. 
Il monastero è piccolino: le pareti, le colonne, le volte, il soffitto sono completamente ricoperti di affreschi. 
Una selva di facce, di occhi, di espressioni severe e ieratiche. 
Di religione  e religiosità capisco poco. 
Entrano due persone. Davanti alle icone, fanno tre volte il segno della croce e poi toccano con la fronte le immagini.  
Mi chiedo però in  quanti "contemporaneamente" possano pregare nella biserica di Snagov, o nel monastero  di Sinaia, o nella chiesa assai più famosa di Stravrapoleos a Bucarest. 
Tutte minuscole. 
Erano riservate solo a pochi monaci?

La tomba di Vlad – ammesso che lo sia - è una lastra grigia anonima piantata nel pavimento, su cui sono poggiati una cornice con il ritratto ed un lumino rosso.  
[Andare in Romania  per seguire le tracce di Dracula mi pare sempre più una strunzata. La Romania ha un fascino che prescinde da]
Il percorso a ritroso è più animato.  Sul lago un motoscafo trascina un giovane sugli sci d’acqua. 
Nella piscina di una grande villa seminascosta dal ponte e dalla vegetazione, sguazzano  alcune signore molto in carne. 

Bucarest mi accoglie con un cielo grigio metallico e la pioggia, appena scendo dal bus. 
L’appartamento  che ho prenotato è in un edificio stranissimo, una torre circolare alta un cuofano di piani.
(scoprirò che è un edificio degli anni’30, un unicum a Bucarest, un esempio di architettura brutale prima che venisse sperimentata nel resto d’Europa. 
Un archetipo).
L’ascensore non mi sembra affidabile, è piccolissimo e il cigolio che fanno le porte dall’apertura manuale è quasi terrificante. 
Nove piani a piedi mi consentono di osservare con meticolosità lo stato di degrado in cui versa il palazzo, e quasi tutti gli edifici che riesco ad vedere dalle finestre a tutta altezza che segnano una sezione della parete della rampa  circolare. 
L’appartamentino invece è carinissimo, pulito, moderno ed ha una terrazza che  mi consentirà una ancora più approfondita analisi dei tetti della città, e di ammirare il tramonto in un cielo trapuntato e stridente di gabbiani, e di  ascoltare  lo spettacolo folkloristico proveniente dalla vicina Terasa Doamnei - a saperlo avrei portato un binocolo e guardato bene anche i ballerini in costume tradizionale.

Il “centro storico” di Bucarest è così:  ci sono giganteschi edifici neoclassici, imponenti edifici di rappresentanza che ancora oggi ospitano uffici amministrativi e governativi, ed edifici finto/neoclassici di età ceaușeschiana che cadono a pezzi, palazzoni stile sovietico e negozi eleganti, negozi chiusi e dismessi e  localini fighi e multietnici,  muri scrostati e strade pulitissime, striscioni di avviso pericolo crollo e verdissimi  e curatissimi parchi.

libreria Carusel


Bucarest è ossimorica, e carica di seduzione.
Il suo fascino è nella convivenza  tra il desiderio di liberarsi del fardello del passato recente e il bisogno di tenere memoria di quel  passato,  il cui   segno distintivo era  cancellare ogni traccia della Storia. 
Il vampiro, il succhiasangue, il dracula dei rumeni è stato Nicolae Ceaușescu.
La Transfagarasan è bellissima da percorrere, certo. 
Adesso molti abitanti dei villaggi che la strada attraversa  hanno convertito le proprie abitazioni in pensioncine o bed & breakfast e  traggono dei benefici dal flusso turistico. 
Eppure non credo che quando  decise di costruirla, nel 1970, il conducator pensasse a torme di motociclisti inebriati dall’idea di fare le curve a recchia in uno scenario naturale meraviglioso. 

Per edificare la mastodontica Casa del popolo, ora Palazzo del Parlamento (iniziato negli anni ‘80, quando in Europa l’idea di bene culturale era diventata onnicomprensiva ), con tutte le pertinenze annesse e il Bulevardul Unirii, venne rasa al suolo buona parte del centro storico della città.  
Alcune chiese ortodosse vennero traslate letteralmente  per salvarle dall’abbattimento. 
E se gli Champs-Élysées avevano un loro perché, il boulevard  rumeno è  stato una vera e propria follia anacronistica, espressione di un puerile ce l’ho più lungo. 
[la casa del popolo è il ce l’ho più grosso]  

Il mio sguardo su Bucarest è stato epidermico e veloce, dovrò tornare, per fermarmi a fumare il narghilè in uno dei tanti locali  del  bellissimo Passaggio Macca Villacrosse, per pranzare ancora una volta nell’elegantissimo e iperturistico Caru' cu bere (magari ci vado a mezzogiorno, quando c’è meno folla), per ritornare e comprare qualcosa nella meravigliosa Cărturești Carusel, per scoprire a quale chiesa appartiene la cupola dorata che si vede dalla terrazza dell’appartamento in cui ho alloggiato, e per fare e vedere tutto ciò che non ho fatto e non ho visto.

Tornare a Bucarest e ripartire per il Parco Naturale delle Montagne del Maramures, da attraversare con il treno a vapore, la Mocanita. 

[  - “L’anno prossimo voglio andare in Maramures con  Mocanita **”
- “E chi è?”
- “E’ un treno a vapore.”]




* Cărturești Carusel





Le tappe precedenti:

Transfarasan, Transilvania, Trans.Romania

Transfarasan, Transilvania, Trans.Romania (2)

Transfarasan, Transilvania, Trans.Romania (3)

Transfarasan, Transilvania, Trans.Romania (4)

lunedì 23 luglio 2018

Transfagarasan, Transilvania, Trans-Romania. (4)


Ultima chiesa sassone fortificata prima di arrivare a Brasov, in una cittadina distante pochi chilometri. 
Prejmer
C’è movimento. Le bancarelle e il palco in montaggio lasciano intuire i preparativi per una festa paesana. 
Ha una doppia cinta muraria, la chiesa sassone. All’interno della prima, negozietti di souvenir, e miracolo! persino dei pannelli illustrativi sulla distribuzione geografica delle chiese fortificate, sulle loro caratteristiche, pannelli esplicativi in  rumeno e inglese (la mia comprensione dell’inglese è assai  parziale, ma meglio parziale che nulla).
La seconda cinta presenta, sul lato interno, vari piani di celle e cellette. 
Un anello ad alveare  al cui centro c’è la chiesa. Molto suggestivo. 
Si possono percorrere i ballatoi, si può entrare in qualche stanza, si possono salire le scalette in legno che collegano piano e piano. 
E’ la chiesa fortificata più affollata di turisti: ci sono anche dei gruppi di ragazzini, sembrano scolaresche in visita di istruzione (ma in Romania si va a scuola anche a luglio???)
E’ senza dubbio la più interessante  - e pariante - delle tre che ho inserito nell’itinerario. 

Ancora street food. 
In un  furgoncino attrezzato con bancone, piani, friggitrice, e sul retro una grande furnacella, si preparano langos e kurtoskalacs. 
Il làngos è la pizza fritta rumena (ungherese, ma vabbuò, si magna anche in Romania). 
Una base di pasta fritta, su cui si spalma panna acida e si grattugia una montagna di formaggio (io ho assaggiato questa versione) 
Piegata a portafogli, consegnata al destinatario (moi) e immantinente divorata. 
Per dessert, un  Kurtoskalacs. 
E’ come un trdelník, un rotolo di pasta cotto sulla griglia e  ricoperto di mandorle e noccioline che ho mangiato anche in Repubblica Ceca.  
Quello rumeno è davvero gigante, grande almeno quattro volte quello praghese.  
Un cannone. 
E’ così grande che sono scossa da attimi di titubanza, fino a quando  un’altra cliente mi propone (a gesti, of course), di prenderne uno e di dividere cilindrone e costo. 
Affare fatto, mi strafogo anche il mezzo cannone, che inevitabilmente si gnomma sullo stomaco peggio di un blocco di cemento. 

Panza piena e cuor leggero, si arriva a Brasov, una cittadina movidosa. 
Tanta gente, concentrata soprattutto nella pedonale strada  Republicii, un tempo la strada delle Gilde degli artigiani, ricca di edifici dalle splendide facciate.  
Sfocia nella grande piazza del mercato. 
Ai pedoni sono concessi solo i lati della strada, perché il centro è occupato da un’infinita teoria di tavoli sedie poltroncine ombrelloni gazebo. 
Secondo una tradizione locale, non ad Almaș (così per una variante della fiaba) ma proprio vicino a questa grande  piazza sbucarono i 130 bambini portati via dal pifferaio di Hamelin. 
E anche io vengo risucchiata dalla piazza,  attirata da una musica. 
Non è un  piffero. E’ un’intera orchestra. 
Su un palco, montato all’estremità della piazza, verso la Chiesa Nera, si esibisce la filarmonica di Brasov. 
I musicisti sono bravissimi. 
Il direttore d’orchestra è pieno di verve, ha il ciuffo ribelle così come lo richiede l’immaginario collettivo. 
Al termine di una serie di esecuzioni musicali, si volta verso il pubblico, parla, accompagnando le parole con una mimica facciale e una gestualità assai accentuate. Il pubblico ride e applaude. 
Mi dispiace non poter ridere.  Posso solo applaudire.

E’ davvero una meraviglia, un incanto, stare seduta sui gradini della  fontana, lo sguardo perso tra i tetti degli storici palazzi e il volo dei gabbiani sul cielo terso e luminoso, la musica nelle orecchie e nell’anima. 
Vorrei durasse in eterno. Omnia transit, invece.
Una bambina fa cadere l’acqua dalla bottiglina e mi ritrovo con il culo bagnato. 
Meglio alzarsi. 
E anche il concerto finisce. Gli strumenti vengono riposti nelle custodie e il palco diventa uno scheletro di ferro.

Nella  biserica neagra, imponente e severa all’esterno, negra e cupa anche all’interno,  non è possibile fotografare, neanche con il cellulare. 
Cattiva abitudine, lo schermo del telefono troppe volte sostituisce gli occhi. 
Ma per quanto tempo ricorderò il coro di voci bianche che fa le prove sull’altare  rischiarando di bellezza la cattedrale?

Sinaia è una località d’elite. 
Stazione sciistica, si snoda lungo una strada principale. Ci sono tanti bei palazzetti, tanti bei villini anche sui pendi. 
E’ cresciuta attorno al monastero omonimo. 
Alla fine del 1800 re Carlo I fece costruire un castello per le vacanze estive, e nell’area della sua tenuta sorsero anche altri edifici in stile similare. 
Probabilmente la presenza delle reali dimore generò una sorta di catena di santantonio, per cui chi poteva si faceva costruire nei dintorni una bella casettina per spararsi un po’ di pose, o  andava nei lussuosi alberghi e al casinò (che ora è un centro conferenze, visitabile).
Ed è rimasta un poco di puzza al naso, a Sinaia.
 (la più cara tra le cittadine rumene che ho visitato.)
Nonostante la pioggia – la mia solita ciorta –,  il freddo, le nuvole grigie che incupiscono tutto, nonostante i giapponesi che stanno ore a turno a fotografarsi davanti ogni cuolldicazz, il parco di Peles e tutti i suoi edifici sono bellissimi. 

Castello di Peles, Sinaia

L’orario di visita dei castelli termina piuttosto presto: l’ultimo ingresso è alle 16,30. 
Piuttosto che stare inculata alla fila e vedere in affanno il castellone, opto per l’entrata nel castello di Pelisor. 
(il fratellino minore)
All’ingresso, in uno scatolone, ci sono centinaia di pallottoline di plastica azzurra: sono i copriscarpe da indossare per non inzaccherare il pavimento in legno del palazzo. 
(ecco da dove provenivano! Un cuofano di giapponesi nel parco camminavano – senza fare neanche uno sciugliamazzo! - con queste coperture: non le avevano tolte neanche dopo la visita).
Dalle scarne informazioni in inglese riportate su foglio A4, deduco che ancora una volta la padrona di casa è  la regina Maria:  lo studiolo di pittura, la camera del ricamo,  la stanza per ospitare la sorella, la  Camera d’Oro, le cui pareti sono interamente ricoperte da foglie di  cardo in oro. 
E che due palle.
La proprietaria del bed and breakfast dove alloggio dice : la regina Maria ha fatto tanto per la Romania.
Io penso che la regina Maria abbia avuto tanto dalla Romania.

L’itineranza termina. 
E’ tempo di riconsegnare l’auto e di andare a Bucarest. 



domenica 22 luglio 2018

Transfagarasan, Transilvania, Trans - Romania. (2).


La prima  tappa in  Transilvania è Sibiu, ma c'è tempo per  una sosta al Castelul de Lut Valea Zanelor, ovvero il Castello di argilla della Valle delle Fate, ovvero un bizzarro progetto non completato di albergo esclusivo sulle sponde di un ruscelletto. 
Per raggiungere il complesso, occorre fare una deviazione dalla strada verso il villaggio  Porumbacu de sus. C’è il nulla. 
Anzi, ci sono campi, pecore mucche cavalli liberi, nidi di cicogne sui pali della luce. 
In ogni nido, anzi nidone, ce ne sono almeno tre. 
Ferme immobili come statue. Le inquadro per almeno un quarto d’ora. Nessun battito di ali, giro di collo, alzata di zampa. Manco fossero di plastica o gesso.
Poco oltre  un’infinità di corvi, nei campi, sui fili della luce tra un palo e l’altro. 
Flash di Hitchcockiana memoria.
[chiudi il finestrino, mettiamo l’aria condizionata]

Castelul de lut sarebbe dovuto essere un esclusivo albergo eco-frendly.  E’ possibile entrare nel complesso dietro pagamento di una cifra modesta. Gli edifici, a metà tra le architetture di Gaudì e la realizzazione concreta del villaggio dei puffi,   si possono ammirare solo dall’esterno, tranne che per una stanza, completamente vuota. C’è paglia sulla terra battuta al posto del pavimento. 

sibiu castelul de lut

Un comune chalet prefabbricato in legno funge da bar/ristoro/vendita di souvenir. 
Ruscello,  alberi,  tanti fiori e sedili costituiti da balle di fieno o tronchi di albero su cui sono poggiati cuscini colorati rendono amena la sosta. 
Una coppia di sposi, con l’equipe fotografica, attende il passaggio dei visitatori per essere immortalata nella romantica location. 
Penso che se dovessero completare il progetto, ad usufruire di questo spazio saranno pochi privilegiati. E allora, forse è meglio che resti incompiuto. 

Sibiu è una città che ti guarda. Gli edifici hanno gli occhi. Sui tetti spioventi delle case del centro storico ci sono delle finestre, dei lucernai con una forma rigonfia e allungata che sembrano davvero palpebre.

Sibiu Romania

La Strada Nicolae Balcescu è un  viale pedonale pieno di localini, di negozi, di movida. (non si tira troppo tardi la sera, però. Alle 23 già è abbastanza vuoto e silenzioso). Porta dritto dritto alla Piata Mare, la grande piazza, E’ qui che si realizza lo sguardo della città. Da questo momento in poi, tutti gli altri occhi/finestre non potranno più essere ignorati.

Sibiu

Nella vicina Piața Mică si gioca a beach volley. Fa strano, fa assai strano vedere il campo di sabbia nel mezzo della piazza, c’è  pure una striscia di sabbia libera dove i bambini giocano con i secchielli. 
[io non ce l’avrò mai il campo di beach volley nel mezzo della piazza della  mia città].

Salgo sulla torre del Consiglio. Il bigliettaio ha voglia di chiacchierare. Adora l’Italia – dice senza spiccicare una parola in italiano. Vuole fare l’allenatore della squadra  di calcio del Napoli. 
I sogni non hanno confini, ma neanche gli esaurimenti nervosi. 
Ogni piano della torre ospita un allestimento corredato da scarne informazioni o una mostra/vendita.  I piani sono collegati da scale in legno che scricchiolano ad ogni passo.
Una mandria di giovanissimi turisti  inglesi rende il cigolio quasi insopportabile. 
Dall’ultimo piano si può osservare la città dall’alto. Le finestre, mannaggia, sono chiuse e fa un caldo soffocante.

Primo assaggio di street food rumena: covrigi.   Ricordano un po’ i pretzels tedeschi, ma hanno la forma ad anello senza incrocio e possono anche essere farciti. Ne becco uno con il formaggio di capra. (cazz, avrei fatto meglio a indicare quello con la cioccolata, sarei andata sul sicuro)
Sono buoni ed economicissimi i covrigi. E ho scoperto che c’è anche una  catena locale che ne sforna in varie città rumene.
E’ un  mcdonald autoctono, ed  ha un  nome assonante e familiare: Gigi Covrigi.

Sibiu, Hermannstadt.
Sibiu, come molte altre città della Transilvania, ha avuto una forte impronta sassone: resiste nella toponomastica.
A Sibiu cento anni fa più della metà della popolazione era tedesca.
In Transilvania ci sono moltissime chiese fortificate, ex roccaforti protestanti nel cuore della ortodossia cattolica. 
Sette di queste chiese sono iscritte dall’Unesco tra i siti Patrimonio dell’Umanità. Visito tre tra queste.

La prima, tra Sibiu e Sighisoara, è quella di Biertan.
I villaggi che intervallano la strada tra Sibiu e Biertan si somigliano tutti: lungo la carreggiata scorrono casette basse, con il tetto spiovente, tutte attaccate. La facciata è solo una facciata: solo finestrine e portoncini. Sicuramente l’ingresso vero è interno, nella corte. Ancora carretti trainati da cavalli che trasportano fieno, legno, persone. Ancora mucche cavalli pecore. 
Biertan si differenzia dagli altri villaggi per la piazzetta, al centro della quale c’è un giardino fiorito e ben curato. 
La chiesa con la sua cinta muraria è proprio a ridosso della piazza. Addossati alla cinta due edifici: un ristorante e un ostello. Vicine vicine vicine tante altre abitazioni. 
Forse è per questo che non si riesce a percepire il senso della “fortificazione”.

Biertan




La chiesa è costruita su un piccolo rilievo. Si arriva  passando attraverso la Scara Acoperita, una scalinata coperta, bella.







Del complesso fortificato, non è possibile visitare nulla se non la chiesa e il piccolo museo di civiltà locale. .
Tutte le torri sono inaccessibili. 
Non mi sembra che ci sia molta cura, non c’è attenzione per il recupero e il restauro, anche se la chiesa ospita varie manifestazioni nel suo cortile interno. 
Tra le tre chiese fortificate, quella di Biertan è la meno affascinante.
La cosa più curiosa è la gigantesca serratura della porta della sacrestia, ex sala del tesoro. 
Le altre sono a  Viscri e a Prejmer, lungo la strada che porta  da Sighisoara a  Brasov.  


Transfagarasan, Transilvania, Trans-Romania. (3)

Il centro storico di Sighisoara è stato dichiarato patrimonio dell’Umanità dall’Unesco. 
La città è famosa anche in quanto luogo natio del principe valacco Vlad Tepes l’impalatore, a cui si ispirò Bram Stoker per il suo romanzo Dracula.  
Di draculesco e vampiresco Sighisoara non ha proprio niente, se non che prima del tramonto la cittadella si svuota, chiudono i negozietti, si defilano  i turisti, e sembra di stare in un borgo morto. 
Il centro storico – piccolissimo, si visita in mezza giornata, monumenti inclusi – è colorato, fiorito  e gentile. 
(fino a quando c’è luce, poi non so)

città di dracula sighisoara

E’ bella la vista a 360° dalla balconata della torre dell’orologio. 

Sighisoara torre





L'edificio, che oggi ospita il museo di storia locale, pare che sia l'unico  in tutta la Romania che abbia un orologio con le figure lignee che si muovono allo scoccare del mezzogiorno. Sono rappresentati i giorni della settimana ed  altre figure allegoriche come la Giustizia e la Pace.   






In via 1 dicembre (ce ne sono tante di vie e piazze 1° dicembre [1918], data che celebra una tappa importante del processo di unificazione e di indipendenza della nazione) c’è il monumento con la statua della lupa capitolina con Romolo e Remo, donato nel 1942 dalla città di Roma per celebrare le radici comuni. 
Alla citta [senza l’accento] di Sighisoara Roma madre.
Ho pensato che quella lupa assomiglia più ad una scrofa che ad un canide.

E’ bella  faticosa anche la Scara Scolarilor, una scala coperta lunga più di 170 scalini che conduce alla biserica Din Deal e anche al liceo. 
Un passaggio che, una volta imboccato, impediva agli studenti di ammacchiarsi tra i vicoli della cittadella e nel boschetto e fare filone, oppure un atto di magnifica gentilezza che risparmiava agli scolari di inzupparsi fino al midollo in caso di pioggia o di sudare come maiali in caso di solleone?
Il mistero di Sighisoara. 

Ad ogni modo, a Sighisoara val la pena  bighellonare tra i vicoletti, su e giù seguendo il tortuoso disegno  della cittadella, e poi affacciarsi al belvedere davanti al municipio, e guardare la città nuova che freccia lungo il  fiume e la novecentesca  Biserica Sfânta Treime, in stile neogotico, che è davvero molto fotogenica. 

Fiume sighisoara

Prima di partire per Brasov, una sosta da Gigi per il mattutino covrigi alla vaniglia. 

Facendo una deviazione dalla strada Sighisoara- Brasov, si arriva a Viscri, dove c’è un’altra chiesa sassone fortificata. 
La strada è una mulattiera: niente asfalto, voragini da scansare ad ogni metro, mulinelli di polvere ad ogni girata di ruota. 
Mi chiedo come faccia il principe Carlo d’Inghilterra a raggiungere la sua dimora rumena. 
Viscri deve la sua fama non solo  alla chiesa, ma soprattutto al fatto che il regale anziano rampollo  lo ha eletto a villaggio del cuore, comprando e ristrutturando varie case contadine. *

Viscri carlo d'inghilterra


In verità, non immagino  né il principe Carlo né qualsiasi altra regalità passeggiare a Viscri – arrivare a Viscri - , che ha conservato un’impronta arcaico/agreste – galline, oche, cavalli, tronco scavato con fontanella, vecchiette che fanno l’uncinetto davanti casa,  ma non tanto più di altri villaggi incontrati durante il tragitto. 




[Però la sua chiesa sassone  è molto più bella di quella di Bertan. Rende perfettamente  l’idea di chiesa fortificata, e da sola vale la deviazione]

Viscri carlo d'inghilterra


Probabilmente  la mulattiera che  collega  il villaggio al resto della nazione ha contribuito al suo isolamento, ma i lavori stradali in corso rimedieranno ben presto, e lo trasformeranno in un’ attrazione turistica  pari alla cittadella di Rasnov. **
E poco al di sotto  il castello di Bran.
Al cuore e al marketing non si comanda. 


 “il cocchiere stava portando il calesse nel cortile di un gran castello in rovina, dalle cui alte, negre finestre non traspariva raggio di luce, e i cui merli crollanti si disegnavano frastagliati contro il cielo rischiarato dalla luna.[…]
Nella semioscurità, la corte pareva di notevoli dimensioni, e siccome parecchi anditi bui se ne dipartivano da sotto grandi archi a tutto sesto, forse sembrava più spaziosa di quanto non fosse in realtà.” - Bram Stoker, "Dracula".

Stoker non visitò mai la Romania. La descrizione del castello del conte Dracula nel libro di Bram Stoker è assai  generica.
Ma cosa può attrarre di più il turismo di massa?
L’inquietante e tenebrosa casa del sanguinario vampiro Dracula o l’amena e agreste dimora della eclettica Maria di Sassonia-Coburgo-Gotha, regina consorte di Romania?

E così si va a vedere il castello di Bran noto come castello di Dracula con la testa fervente di suggestioni, e oltre la grande spianata delle bancarelle di souvenir – denti vampireschi e caccavelle in legno, spille con la faccia di Vlad III e camicette coi ricami colorati - , oltre la biglietteria, oltre il ridente  parco,  oltre  la  rampa  di accesso, oltre la porta del castello, oltre i tornelli  controllo biglietto, e  ci si ritrova  in fila indiana con scolaresche e altre centinaia di turisti – immancabili i giapponesi – a sfilare davanti alle stanze in cui ha vissuto la regina Maria, a guardare le foto che la ritraggono in tutte le salse e le occasioni, a subire la sua agiografia. 

Nel 2006 il castello è stato restituito ai suoi  eredi (tre nipoti, figli della figlia minore prediletta), che lo gestiscono.
Al cuore e al marketing non si comanda.

Castello di dracula Bran



venerdì 20 luglio 2018

Transfagarasan, Transilvania, Trans-Romania.

In origine sarebbe dovuto essere un viaggio di 22 giorni, in auto us usually, da casa attraversando  gli Appennini e le Alpi orientali e la Slovenia e l’Ungheria fino ai monasteri della Bucovina, e poi a sud in Transilvania, e ancora fino a  Bucarest e dintorni e dietro front. 
Poi si è assottigliato a 15 giorni, sacrificando la parte settentrionale  della Romania e allungando i km tra tappa e tappa. 
Poi si è prosciugato ad una secca settimana, e allora la macchina  baldo ronzinante viene destinata allo stallaggio, e  l’aereo – per mare e per cielo non ci stanno taverne – diventa l’unico mezzo per poter almeno vederne un pezzettino, di Romania.
(e pioggia e accidenti febbreschi ridurranno ancora di più la già striminzita vacanza)

Ho da poco scoperto una figata pazzesca: fare tracking di ogni volo in tempo reale.*
Gli aeroplanini si muovono sulla carta geografica. Li si può vedere dal momento del decollo fino all'atterraggio, e seguire in diretta la rotta. 
Quanti ne passano sulle nostre teste! E' impressionante. 
Autobus del cielo. 
Ma quando l’aereo lo si prende ogni morte di papa, lo stato immotivato di ansia  porta ad anticiparsi così tanto da rendere inutile il check-in on line,  lo stipo in  40X55X20 di tutto ciò che si vuole portare appresso, il costo del priority,
Inganno il tempo nel non luogo dell’aeroporto, oltre il varco dei controlli, osservando  profumi occhiali orologi  borse transnazionali e souvenir locali, cibi caldi freddi bevande ghiacciate fumanti e valigie trolley borsoni zaini e sandali piedi veloci lenti vestiti sgargianti minigonne chador cravatte  canottiere e passeggini marsupi e teste rasate capelli cotonati tatuaggi,   captando lingue tante diverse, che si mescolano in un potpourri ammaliante. 
Il lusso di chi non è abituato a prendere l’autobus del cielo. 

Meno di due ore di volo, in un lampo l’aereo sorpassa lo stivale e l’Adriatico, e punta ad est, nella terra di Dracula e dei vampiri.
(ma l’unico vero vampiro, al di là della letteratura e delle leggende,  si chiamava Nicolae Ceaușescu).
Il controllo documenti all’aeroporto di Bucarest è meticoloso. 
Il milite sigillato nel gabbiotto  guarda me, poi  guarda la carta d’identità. Mi osserva, mi fissa, mi squadra. 
Passaport, mi dice. 
E mica ce l’ho, non basta la carta d’identità? Dopo aver aperto, chiuso, riaperto, chiuso e riaperto il documento, guardato,  scrutato, analizzato la mia faccia, mi dice ciao. 
E cià. Avrò la faccia di terrorista. 
(ha fatto fare la fila dietro di me)
Di corsa verso l’ufficio di noleggio auto per ritirare la vettura prenotata mesi prima dall’Italia. 
Credevo – comune radice neolatina e alto tasso di emigrazione – che la lingua di Dante fosse parlata da qualcuno in Romania,  speravo di evitare lo sforzo di esprimermi nel mio arruginito inglese di sussistenza. 
Invece, manco per niente.
Tracciando disegni nell’aria con le mani, roteando occhi e mulinando where is and can I a capadicazz, senza comprendere nella stragrande maggioranza delle volte una beata minchia delle risposte,   arrivo a quagliare la consegna della vettura, prezioso e carissimo sostituto del fido ronzinante  – il rent a car è esperienza novella, tremila ricerche per avere una garanzia di serietà, al costo doppio di ogni pernottamento. 
Un’immacolata Renault Clio (202 euro per quattro giorni e franchigia di 500) con la quale si percorrerà   la Transfagarasan, il motivo primo del viaggio.

[- "Voglio percorrere la Transfagarasan."
- "E che è?"
- "Una strada tutta tornanti che attraversa i Carpazi"
- "E  perchè?"
 - "Perchè sì. E poi visitiamo la Romania"] 

Tappa pernottamento per affrontare di buon mattino la strada definita la più bella del mondo, Corbeni, a circa 180 km dalla capitale rumena. 
Già a pochi chilometri dall’aeroporto il paesaggio cambia, si trasforma da urbano a rurale. Si incrociano carretti trainati da cavalli; pecore e capre brucano ai margini della strada.
Ci sono pagliai nei cortili e nei campi: una struttura di legno circolare su cui si ammonticchia il fieno.
 Un odore assordante di funghi. 
Le case basse, allineate lungo la carreggiata, pure se sgarrupate, hanno velleità estetiche nelle finestre ad archi trilobati: hanno qualcosa di ecclesiastico.

Edicole votive, transfagarasan



Di tanto in tanto sul ciglio s’incontrano delle edicole, o forse è meglio dire delle cappelle [chiese miniaturizzate], con tanto di cancelletto, finestre e dipinti sulle pareti.  Dentro lumini, fiori, icone e anche foto di persone. 
Forse defunti, forse miracolati.



Il tramonto nei cieli dell’est è  struggente.



Il risveglio nella pensiunea è dettato dal sorgere  del sole – non  solo non si usano le persiane, ma neanche le tende coprenti, e cazz,  alle 5 del mattino il raggio mi trafigge l’occhio chiuso – e da belati e suono  di campanacci.
Un gregge passa dall’altra parte del fiume: sono pecore rosa! Il vello è rosa, rossastro, brunito.
[le hanno pittate per distinguerle dalle pecore di un  altro gregge? Ma che senso ha fare la tintura integrale? Sarebbe bastato uno spiringuacchio sul  groppone]

La strada DN7C  attraversa una parte dei  Carpazi,  seguendo un tortuoso disegno, ed è percorribile interamente solo per pochi mesi all’anno, in estate. 
E’ un’altra opera  titanica voluta da Nicolae Ceaușescu per motivi di ordine militare.
Mi chiedo a quale utilità tattica pensasse il dittatore. E’ una strada che si percorre con grande lentezza. 
Cascatelle solcano le pareti rocciose e s’incuneano tra i fitti boschi.  
Si salta, per ragioni imperscrutabili [1400 scalini per andare a vedere due pietre?], la cetatea poienari, ovvero il vero castello di Vlad l’impalatore, che è in rovina. 

Prometeo lago Vidraru
La prima sosta è al lago Vidraru, un lago artificiale che nutre una centrale idroelettrica. 
Una statua metallica, un Prometeo con un fulmine teso tra le mani alzate, domina l’area. 
[a me sembra più un transformers o gig robot che un prometeo]
Una breve passeggiata a piedi. 
L’edificio della centrale idroelettrica ha delle porte a specchio. Mi viene lo schiribizzo di fare una foto nello specchio che riflette il paesaggio e me. Spunta un uomo in divisa (Funzionario? Milite? Guardia?) che mi dice di no. 
Voltare spalle e guardare il lago, prego. 
[si vede da un miglio di distanza che ho l’occhio coi raggi X].


Il punto più alto della Transfagarasan è a oltre 2000 metri di altitudine, tangente il lago glaciale Balea. 


Lago Balea Transfagarasan

Una bruma avvolge l’area di parcheggio e le bancarelle che vendono carnati – squisite salsicce - , spighe arrostite o bollite, palle di polenta avvolte in carta argentata e scaldate sulla griglia, marmellate, conserve, dolci e terrificanti souvenir draculeschi. 
Le nuvole pesano sullo specchio d’acqua. 
Fa molto freddo. 
Sembra di essere in Norvegia. 
Quando il sole riesce a filtrare attraverso la coltre nebulosa, la luce accende di colori sgargianti e di spettacolari riflessi il paesaggio.

lago Balea Transfagarasan

E’ ipnotico, incantevole.  
C’è un punto panoramico, su cui si erge un padiglione a vetri. 
E’ in una “proprietà privata”,  per cui l’accesso è a pagamento.  
Dai piedi della scalinata di rocce e cemento sembrava una chiesa. 
Dentro animali impagliati, souvenir, cazzatelle e un calore soffocante.
E’ da questo punto che si può osservare la serpentina di tornanti che ha generato  la  fama “iconografica” della  Transfagarasan. 
Non c’è possibilità di far vagare libero lo sguardo oltre lo stretto spazio della vetrata. 
In mancanza di droni, mi accontento di fare delle foto azzeccando l’obiettivo al vetro, a come viene. 
Per fortuna la bellezza della Transfagarasan e dei monti che la strada attraversa non è in questo fermo immagine.

Romania Transfagarasan
Ritorno all’aperto, voltando le spalle alla serpentina e affogandolo sulle pareti rocciose che racchiudono il lago.  
Greggi di pecore  brucano su crinali  verticali.  
Mi chiedo come facciano  i pastori a seguirle.
Dal lago Balea è tutta discesa, e si arriva  ad una pianura che più piatta non si può. 
Rimpiango subito la maestosità, l’imponenza, la freschezza, la multiformità dei monti  Făgăraş (così si chiamano queste alture dei Carpazi., e per questo la strada si chiama Transfagarasan). 
Dalla natura alla cultura. 
Si va a Sibiu. 


giovedì 29 marzo 2018

Appunti per un naufragio.

Ci sono tanti modi per parlare del migranti, dei barconi che affondano nel mare di Lampedusa. Spesso pretesto per alzare muri, per fomentare sospetti e insofferenza, altrettanto spesso spettacolarizzazione del dramma fino a renderlo pura  retorica. 

La prospettiva che ha scelto Enia per raccontare di Lampedusa e dei barconi che vi approdano, con il loro carico di vivi e di morti, non esclude la cronaca, ma è intimo e profondo, muovendosi su un binario che affianca  ricordi e  affetti personali - del tutto avulsi dal dramma dei migranti -  e i naufragi, vissuti  soprattutto da chi si trova sull’isola come abitante, come soccorritore. 

Binari, due rotaie parallele che sembrano non incontrarsi mai, eppure collegate da molteplici traverse.

Nel linguaggio filosofico – secondo quanto riportato dal vocabolario Treccani, naufragio è  “termine con cui talora si rende in italiano il tedesco Scheitern con cui lo psicologo e filosofo tedesco Jaspers  esprime l’esperienza dell’impossibilità per l’uomo di superare le «situazioni-limite» (per esempio, non poter vivere senza lotta e dolore, essere destinato alla morte, ecc).”

In questa accezione mi piace pensare al naufragio di cui Enia scrive appunti. 
Naufragi, meglio, declinando al plurale, così come plurale sono le  storie  nel libro. 


La Storia collettiva è contemporaneamente  storia privata: la storia  di Paola, di Melo, di Simone, dei pescatori di Lampedusa e dei migranti:
Nascerà un’epica di Lampedusa. Sono centinaia di migliaia le persone transitate dall’isola […].
Ci vorranno anni […]. 
E saranno loro a spiegarci cosa è diventata l’Europa e a mostrarci, come uno specchio, chi siamo diventati noi.

La storia  privata è contemporaneamente Storia collettiva: il rapporto tra Davide Enia e suo padre, tra Davide e  suo zio Beppe, e quello tra i  due fratelli di fronte al naufragio  Scheitern  quale  è la malattia, il tumore che destina alla morte, specchio della condizione di tanti che vivono la paura di guardare davvero negli occhi l’altro, soprattutto se amato,  che  soffre. 

“No man is an Iland”, ma ogni uomo è “Lampedusa, da lepas, lo scoglio che scortica, eroso dalla furia degli elementi, che resiste e conferma una presenza, anche solitaria, nella smisurata vastità del mare aperto. Oppure, Lampedusa da lampas, la fiaccola che risplende nel buio, luce che sconfigge lo scuro.

Zio Beppe ha appena finito di leggere la prima bozza del libro:
Ci sono tanti naufragi qua dentro. E io? Ce l’ho un approdo, io?” Per tutto il tempo mi tenne la mano nella sua, accarezzandomela con le dita sottili. Io restai in silenzio, senza rispondere, guardandolo e basta. Non avevo ancora capito che la risposta era tutta lì, in quella carezza della nostre mani.”

Una carezza, una mano che tiene un’altra mano, è la risposta ad ogni naufragio. 

(checchè ne dicano i leghisti & co.)


appunti per un naufragio - davide enia