domenica 23 aprile 2017

Homer & Langley - Edgard L. Doctorow

Disposofobia, o disturbo da accumulo, accumulo patologico seriale, accaparramento compulsivo, o "sindrome dei fratelli Collyer".


I fratelli Homer e Langley Collyer, nati rispettivamente nel 1881 e 1885, furono ritrovati cadaveri nel 1947 nella casa di Harlem dove vivevano segregati e soffocati da tonnellate e tonnellate di oggetti, mobili scassati, giornali, copertoni, immondizia.

Palta.

Una storia che deve aver tenuto desta l’attenzione della cronaca del tempo per giorni e giorni, anche perché il corpo di uno dei fratelli fu ritrovato solo dopo un mese, poco distante da quello dell’altro, sepolto da cumuli di monnezza.

Pensavo che il libro Homer & Langley di  Doctorow, ispirato alla storia dei Collyer, fosse assimilabile al genere di cui “A sangue freddo” di Capote è fulgido esempio.
E invece no, a partire dallo scambio di personalità: Langley non è il minore né il musicista.
La cronaca è davvero solo un pretesto.
I due fratelli vivono anni di disagio e di enormi vuoti: quello che conduce all’ossessione per “l’autosufficienza”- di cui ossessione secondaria è l’accumulo di oggetti - è la mancanza di senso nella vita.
“Cosa poteva esserci di più terribile che venire trasformati in un aneddoto leggendario?”
Sono le parole di Homer,  il protagonista del libro di Edgard L. Doctorow, uno dei due "esuli"dal mondo. 

L’aneddoto si dilata fino a coprire quasi un intero secolo: dagli inizi del Novecento alle passeggiate sulla luna e oltre, passando per le due guerre mondiali, il Vietnam,  gli hippie, le stragi in Salvador.

Il trauma di Langley risale alla prima guerra mondiale, vita e morte in trincea: è dopo quell’esperienza che comincerà a formulare la Teoria dei Rimpiazzi, “il suo modo per definire l’amarezza, la disperazione della vita”, e il progetto del giornale unico per tutti i tempi, quello definitivo, quello che fissa per sempre la Storia dell’Umanità, collezionando tonnellate di giornali da cui estrarre, catalogare e sistematizzare miliardi di notizie solo apparentemente diverse.
Il trauma di Homer è nella cecità che lo colpisce sin da ragazzo. Impara ad orientarsi nel mondo usando l’udito, ma anche il tatto, riconoscendo gli oggetti da come respingono l’aria.
Quando diventa anche sordo, e quando la casa gli si richiude intorno con gli ingombri delle masserizie accumulate dal fratello, non gli restano che le parole per “sentire”, parole per supplire alla mancanza dei sensi.


La loro casa diventa il centro del mondo: entrano Harold, i coniugi giapponesi, Mary Elizabeth che diventerà suora e martire, il gangster Vincent e la sua cricca, i figli dei fiori.
E se ne vanno.
Le persone escono dalla tua vita, e a te non rimane che il ricordo della loro umanità, una povera cosa discontinua senza alcun potere, proprio come la tua.”
Una vita, anzi due che tentano disperatamente di ritagliare uno spazio in cui potersi “muovere” senza dover dipendere da “sistemi” stabiliti e organizzati da altri.

Non sono fenomeni da baraccone Homer e Langley.
Sono due persone che di patologico hanno solo il reciproco irragionevole sostegno.
Entrambi soffrono di un esasperato bisogno di amore e di senso, che surrogano in modi diversi: Homer conservando la memoria, prima degli spazi che non vede più, poi degli eventi e delle persone attraverso le parole.
Langley conservando le cose, giornali, macchine da scrivere, strumenti musicali, maschere antigas, armi, torce, fino ad implodere.

[“C’è stato uno schianto, l’intera casa ha tremato. Dov’è Langley? Dov’è mio fratello?”]

Un bel libro davvero: inaspettato, sorprendente.

sabato 1 aprile 2017

La confraternita dell'uva, ovvero la Coscienza di Henry.

Primo sottotitolo: La coscienza di Henry. Focus su La morte di mio padre.
Secondo sottotitolo: Padre padrone.
Terzo sottotitolo: La famigghia.
(Potrei continuare ad libitum: da Mazz e panell fanno i figli belli a Parenti serpenti.)

La storia è narrata in prima persona da Henry Molise, cinquantenne scrittore apparentemente smarcato da molti anni dall’asfittico “imperio” dei genitori: a venti anni lascia il focolare materno e la fornace paterna.
(Alter ego dello scrittore John Fante)

Sai che cos’è un uomo? Un uomo lavora. Suda. Scava. Martella. Costruisce. Prende un po’ di dollari e li mette da parte. Senti chi parla, ironizzavo io. Non c’era risposta per quel dago da trivio, per quel wop abruzzese di umili origini, per quel bruto d’un bifolco, quel ruzzolamerda, quel leccaculi.
Il wop abruzzese etc è il padre, Nick Molise.
Nick martella, costruisce, si ubriaca, sperpera i soldi al gioco e picchia la moglie.
Un campione di moralità e tenerezza.

Henry è chiamato a casa dal fratello per sedare una situazione scottante – il paventato divorzio dei genitori, [e chi si  tiene papà il babbo??], ma credo soprattutto per fare in modo che un po’ di acido affetto genitoriale ricada su di lui, l’unico figlio ad essersi realmente emancipato dagli intingoli di mammà e dalle carocchiate di papà, 
Henry si ritrova incastrato nell’ultima irragionevole volontà paterna: costruire un affumicatoio in montagna con il suo aiuto come manovale.
La fatica, il coma diabetico e l’ultima colossale bevuta nella vigna di Angelo Musso coi suoi “confratelli” conducono il vecchio Molise al tavuto, e la inconsolabile vedova a stare quieta.
Non mi diceva mai niente. Ogni sera mi chiedevo se sarebbe tornato a casa. E ora è finita. Non mi devo più preoccupare. So dov’è.”

Non è solo un libro sul conflitto generazionale, e sul gap che l’integrazione produce tra immigrati di prima e seconda generazione [adesso invece capita che gli immigrati di seconda generazione, perfettamente integrati, rinverdiscano il peggio della “cultura” del paese dei genitori].
E’ soprattutto un libro sulla corrosiva permanenza dei legami familiari, nonostante da questi si faccia di tutto per allontanarsi, siano essi catene, o abbracci.
Ero anch’io un padre, ma non volevo quel ruolo. Volevo tornare indietro nel tempo, quando ero piccolo e mio padre girava per casa, forte e rumoroso. Fanculo la paternità. Non ci ero tagliato. Ero nato per fare il figlio. “.

Si può non essere genitore, ma non si smette mai di essere figlio.
Si è per sempre figlio di qualcuno.
E quel qualcuno, in qualunque modo sia, lascia molto più di un corredo genetico.
Non è un libro che dimenticherò facilmente, tanto repellente e odiosa è la famiglia Molise: non solo Nick la bestia, la cui vera famiglia è quella dei compagni di bevute, la confraternita, ma pure la querula sua consorte, e i figli tutti, scrittore compreso.

[molti hanno una fortuna e un tesoro che non vengono apprezzati se non quando è troppo tardi.]