domenica 13 marzo 2016

La vera storia del pirata Long John Silver, Larsson Björn


Quindici uomini sulla cassa del morto e una bottiglia di rum.




Pochi mesi fa ho letto L’Isola del tesoro.
Da adultissima.
Eppure la canzuncella dei pirati la conosco da sempre. La cantava pure il nonno a fine pranzo, su quello della staffa con il liquore dopo  tanti bicchieri di vino.
(il rum no, quello  era buono solo per il babbà)
Potere degli sceneggiati televisivi in bianco e nero.
E potere delle storie di pirati, emblema della vita libera e avventurosa.
(andar per mare senza saper nuotare)

Tra tutte le tipologie piratesche,  la figura del quartiermastro John Silver, che ha avuto i suoi natali nel  “L’isola del tesoro” di Stevenson, è quella più enigmatica.
[Johnny Deep è quella più.  Più più più. Vabbuò]

Silver è ambiguo:  abilissimo cuoco, espertissimo marinaio,  buon compagno,  ma   anche spietato e crudele, tale  che  la sua aurea  diabolica  lo accompagna prima e dopo  il suo manifestarsi.
(un  prototipo  del  dottor Jekyll e del signor Hyde)

Silver ha ispirato la mano di  Larsson – così  immagino, 
cantami  oh Silver  la vita, l’arme il mare  e la morte
- affinchè registrasse il suo diario, un’autobiografia scritta quando ormai il corpo  non seguiva più il guizzo vitale.

I ricordi delle  sue avventure -  più di un gatto con sette vite, sopravvivere al giro di chiglia, a due mesi incatenato come schiavo nella stiva della nave negreria,  agli arrembaggi e agli ammutinamenti, alle tempeste e alle lunghissime bonacce -sono  racchiuse in pagine di puro piacere romanzesco.

Le sue pause -  le riflessioni rivolte a  Defoe/Johnson, il cronista dei pirati,   a Jim il protagonista del libro di Stevenson ,  la letteratura che parla con la letteratura,  – hanno un sapore più  malinconico.

E’ difficile  appendere al chiodo, soprattutto quando si è molto vissuto.
E’ ancora più difficile quando si è molto voluto vivere,  in piena libertà e seguendo solo la propria bandiera - anche a costo della vita degli altri.

Una  vita che non sopravviva alla propria morte, in un modo o nell’altro, sulle pagine di un libro o sulla bocca della gente, non è che una cacatura di mosca. O rugiada che evapora al sole.

E’ solo una questione di stile, lo si può dire in modo prosaico o poetico, la sostanza è la stessa.
Non c’è grande differenza tra  una cacatura di mosca e una goccia di rugiada che evapora al sole.

(Ma secondo me non c’è neanche grande differenza tra una vita che sopravviva alla propria morte e  un’altra. Almeno per chi è morto.)

Bella lettura d’evasione e non solo.

Se c’è una cosa da cui ci si deve tenere lontani, se si vuole restare sani di mente, è proprio la scrittura”.

2 commenti:

  1. La coppia Piccole donne e L’isola del tesoro (aggiungiamo pure I ragazzi di Via Pal e facciamo il trio) mi ha fatto innamorare dei libri e della lettura intorno ai dieci anni. La cotta per L’isola del tesoro non m’è mai passata; non a caso, l’ho riletta un paio di anni fa nell’ultima traduzione dell’Einaudi. Proprio due anni fa, dopo la rilettura, presi “La vera storia del pirata John Long Silver” che ancora giace intonso nell’ebook reader.
    Ahimè, Robert Louis m’ha dato una pugnalata la settimana scorsa, con un libro che mi ha annoiato assai. Ma questa è un ‘altra storia. Insomma, forse io e R.L. non ci amiamo più tanto come prima…

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    1. uh, e sono curiosa, qual è il pugnale che t'ha ferita?
      (anche gli amori, come la vita, sono a termine...)

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