domenica 31 maggio 2015

Leggere Lolita a Teheran

Ho una mentalità troppo accademica: ho scritto un numero tale di saggi e articoli che non sono più capace di trasformare le mie esperienze in racconti senza mettermi a pontificare. Eppure è  proprio di questo  che ho voglia – di raccontare, di reinventare me stessa insieme a tutti gli altri.

Tra le dichiarazioni di intenti  e le aspirazioni, e la riuscita di tali intenti e desideri,  c’è di mezzo il mare. 
O un pesante velo.
Non credo affatto che Nafisi sia riuscita a liberarsi dalla mentalità accademica. 
Il velo che le è stato imposto dai fondamentalisti islamici è poca cosa rispetto a quello  che è riuscita a porre tra il corpo nudo di un popolo ferito dalla violenza del fanatismo religioso e dalle guerre  e “il racconto e la reinvenzione” di se stessa e degli altri. 

Sono sempre stata sensibile verso il tema dei diritti negati e affascinata dal potere della letteratura,   eppure non è scattata alcuna empatia verso il racconto della Nafisi. 
La mancanza di empatia, per me, era il peccato originale del regime, quello da cui scaturivano tutti gli altri.”
Un regime caratterizzato da empatia è un assurdo concettuale. 
Invece la mancanza di empatia  è per me  il peccato originale di un romanzo. 
Solo adesso, quando  cerco di rimettere insieme i frammenti di quei giorni, mi accorgo di quanto poco parlassimo delle nostre vite private – di amore, di matrimonio, dell’avere o non avere bambini. Era come se la situazione politica avesse divorato tutto. Tutto, tranne la letteratura.
Persino i due figli della scrittrice, nati durante la sospensione dall’insegnamento, sono  invisibili. 

Non riesco proprio a considerare come emblematica la voce di chi, in un paese straziato dalla povertà, dalle rovine della guerra, dai soprusi e dalle aberrazioni  degli integralisti, si ritrova a chiacchierare così: 
Dovete immaginare una sera d’estate. Siamo a una festa, seduti all’aperto, in un giardino profumato. Su una grande terrazza con vista sulla piscina, il nostro squisito anfitrione ha sistemato alcuni tavolini precariamente illuminati da candele. In un angolo, contro il muro, ha sparso su un tappeto persiano un po’ di cuscini colorati. Vino e vodka sono di fabbricazione  clandestina. Ai tavoli si ride, si chiacchiera, si raccontano storie, più o meno come succede in qualsiasi parte del mondo quando si ritrovano insieme persone colte, argute, sofisticate.” 

Mi piacerebbe molto leggere la stessa storia dal punto di vista di una delle figurine  che pendono dalle sue labbra, da una delle   alunne assunte nel beato regno del salotto di casa Nafisi, le sette prescelte tra i tanti alunni e uditori e specializzandi e laureati,  che sotto la sua illuminata guida scoprono nella letteratura “epifanie della verità”, trasformando il romanzo  di Nabokov, la sua Lolita,  in una assonanza con le donne sotto il regime  teocratico iraniano.
(per tacere della Austin, di Joyce, di James eccetera eccetera)



domenica 17 maggio 2015

Morte a Venice

Dovrei leggere Mann per capire se c'è  debito. 
Intanto ho scoperto un'altra Venezia, al di là dell'oceano.

Ai vecchi tempi Venice, in California, aveva molto da offrire a chi si compiaceva di tristezze. C'era nebbia quasi ogni sera e c'era il brontolìo delle macchine petrolifere lungo la riva, e lo sciabordìo dell'acqua scura nei canali e il sibilo della sabbia contro le finestre quando il vento s'alzava e cantava negli spiazzi aperti o nelle passeggiate deserte.
Erano i giorni in cui il molo di Venice si sgretolava nel mare, e al mutare della marea si intravvedeva fra le onde lo scheletro di un immenso dinosauro — le montagne russe del vecchio luna-park — languire nell'oceano.

E’ in quest’atmosfera decadente che l’amico della Morte, Compare Sconforto, fa collezione di Solitari.
L’amico della Morte ha un alito gelido e alticcio, puzza di sudore e di notte si ferma davanti alle porte e lascia mucchietti di alghe. 
E’ un giovane scrittore che campicchia vendendo racconti di  mistero e fantascienza ai giornali, il primo a sentire il suo alito. 
Il primo ad avere la premonizione della sua pericolosità.

Il romanzo è  un giallo atipico, farcito di omaggi  diretti e indiretti al mondo del cinema, della musica, della letteratura,  costruito con  un ritmo hard boiled  ma puntinato di struggente melanconia. 
Bella l’ambientazione,  le suggestioni sollevate dalla descrizione degli spazi;  affascinanti  i personaggi  strambi e surreali che popolano il romanzo:  l’investigatore filosofo che vive attorniato da una giungla, la diva sepolta nella villa sul mare con il suo cast personale incorporato,  e soprattutto gli abitanti del palazzo di  Los Angeles, un microcosmo di umanità fuori dalle regole e dai giochi: il cieco, Sam,  l’elefantiaca cantante lirica Fanny.
Se molto mi sono piaciuti lo stile e la caratterizzazione dei personaggi, qualche perplessità  mi ha lasciato l’articolazione della trama: vero è che si è fuori dai canoni ordinari del genere, e che il movente non è un movente reale ma una “tesi”, tuttavia questa tesi  mi pare contrastare troppo  con il respiro intero del libro.
L’immaginazione e la paura possono essere   salvezza  e condanna;  lasciarsi andare , arrendersi, arruginire come i dinosauri del luna park è sempre una condanna.
Un Bradbury insolito, una strana lettura che  analogia ardita e irriverente mi ha richiamato alla mente questo, che è impossibile da incorporare (ma anche impossibile da dimenticare, una volta visto) : 

https://youtu.be/oDVNJDSNt7E