lunedì 28 dicembre 2015

Tableaux vivants

Echi dei tableaux vivants, soprattutto sotto forma di cazzeggio, se ne trovano a bizzeffe  come video e immagini virali sui social.
Ma il   tableau vivant, oltre a prestarsi alla burla, ha un suo perchè artistico. 
Il Quadro Vivente,  la cui nascita si colloca nella seconda metà dell'800,  di fatto è espressione che fonde teatro e fotografia e pittura.
Una libidine soprattutto per le avanguardie. 

Anche Pasolini  [e cosa non ha fatto]  li ha sperimentati  ne "La ricotta", attingendo dai dipinti delle deposizioni dei pittori manieristi Pontormo e Rosso fiorentino, e   caricandoli di tutti i traslati polemici e poetici che gli erano  propri.*

Ho assistito alla performance “La conversione di un Cavallo – 23 tableaux vivants dall’opera di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio” diretta da Ludovica Rambelli. 
(Che gran peccato non stare davanti davanti. Mannaggia alle cape altrui)

E’ dal 2006 che sulla scena – una scena nuda,  una piazza, un arenile, il presbiterio di una chiesa – con l’ausilio di pochissimi oggetti di uso comune e di molti pezzi di stoffa bianchi, rossi, neri, ocra e un fascio di luce, i corpi degli attori materializzano i quadri del Caravaggio. 

caravaggio tableax vivants


E’ tutto davanti agli occhi del pubblico, nessun trucco, nessun inganno:  con una naturalezza armonica, gli attori raccolgono dal pavimento le stoffe e le drappeggiano sul corpo e in pochi secondi trasformano se stessi in martiri, santi, astanti, carnefici, angeli, sassi o tavolini. Poi con la stessa naturalezza si immobilizzano nella gestualità dei personaggi caravaggeschi. 

caravaggio tableaux vivants

Alcuni secondi di perfetta stasi, poi la composizione si scioglie, i drappi  scivolano di nuovo sul pavimento o vengono ripiegati in altra guisa: si ripete il rito della vestizione per il nuovo tableau.


Penso che nessun tributo possa meglio rendere onore alla pittura  di Caravaggio, e allo stesso tempo esaltare l’azione teatrale, il corpo che crea e rappresenta la vita, senza alcun artificio o impupazzatura o effetti fantasmagorici. 
Immediatezza e verità. 
Suggestivo, altamente suggestivo e notevole.   




* La scena della deposizione ne La ricotta di Pasolini

martedì 27 ottobre 2015

La giornata d'uno scrutatore, Calvino Italo.

Una volta, per un referendum che poi non raggiunse manco il quorum, feci da scrutatrice all’ospedale Cotugno, padiglione malattie infettive.
Cinque o sei elettori votanti, forse sette. In pigiama.
Nessun seggio volante, per fortuna.
[Temevo il contagio.]

Ad Amerigo Ormea , protagonista de “La giornata di uno scrutatore”, non va liscia.
Era iscritto al partito, questo sì, e per quanto non potesse dirsi un “attivista” perché il suo carattere lo portava verso una vita più raccolta, non si tirava indietro quando c’era da fare qualcosa che sentiva utile e adatto a lui. In Federazione lo consideravano elemento utile e di buon senso: ora l’avevano fatto scrutatore
(ma negli anni ‘50 si sceglievano gli scrutatori in base alle simpatie politiche?)

Il suo compito, da svolgere al Cottolengo, è di vigilare affinchè non accadano brogli, o meglio, affinchè i “pazienti” non vengano “sollecitati”, pur se incapaci di intendere e di volere, a votare per la DC.
Si trattava per i partiti del governo di far valere una nuova legge elettorale (la legge-truffa, l’avevano battezzata gli altri), per cui la coalizione che avesse preso il 50% + 1 dei voti avrebbe avuto i due terzi dei seggi…

[la legge fu abrogata l’anno successivo: alla tornata elettorale in cui il personaggio Amerigo fu scrutatore non scattò, perché la coalizione di governo ottenne il 49,8% dei voti. Nonostante le “sollecitazioni”.
Eh, ai politici son sempre piaciute le “correzioni” e i porcellum]]

Un seggio non troppo composito, il suo: il presidente vecchio, timoroso, indeciso ma formalista, la crocerossina in blusa bianca, lo scrutatore smilzo e defilato e gli altri (democristiani tutti, “tesi a smussare i contrasti”) , una compagna “arancione” (socialista, la verità) dura e pura e cacacazza.
E poi lui, Amerigo.
Si sentiva troppo scoraggiato per sperare di prendere qualsiasi iniziativa. La sua battaglia legalitaria contro le irregolarità e i brogli non era ancora cominciata e già tutta quella miseria gli era calata addosso come una valanga. Che facessero presto, con tutte le loro barelle e stampelle, che s’affrettassero a compiere questo plebiscito di tutti i vivi e i moribondi e magari anche i morti: non era con le ragioni formali di cui disponeva uno scrutatore che la valanga poteva essere fermata.

La vera valanga per Amerigo è però il contatto- contagio con gli abitanti del Cottolengo, che scuote l’intero apparato delle sue certezze e convinzioni.

Costretto per un giorno della sua vita a tenere conto di quanta è estesa quella che vien detta la miseria della natura(…) sentiva aprirsi sotto ai suoi piedi la vanità del tutto.”

E la valanga precipita sui concetti astratti di giustizia, libertà, bellezza, Dio e annessi e connessi, sulla sua condizione concreta e reale (una storia sentimentale complicata, fuggevole; un figlio, forse) e sulla quaestio massima: cosa è l’uomo, cosa è l’umano.
Ad Amerigo tocca anche il seggio volante, che lo porta nel cuore nascosto del Cottolengo, tra i ragazzi pesce e le monache morenti.
E’ soprattutto un padre che schiaccia le mandorle al figlio idiota, che fa scattare la consapevolezza di un legame tra il suo mondo e quello ora disvelato.
Il “genere di amore come una reciproca e continua sfida o corrida o safari , non gli pareva più in contrasto con la presenza di quelle ombre ospedaliere: erano lacci dello stesso nodo o garbuglio in cui sono legate tra loro - dolorosamente , spesso (o sempre) – le persone.”

Una breve, fulminea rivelazione: “l’umano arriva dove arriva l’amore, non ha confini se non quelli che gli diamo.

Sarebbe potuto essere un secco racconto “neorealista” sulla condizione degli “espulsi” dalla società perché “diversi”, o un incazzato racconto di denuncia sulla questione del malcostume politico e sociale.

Ma Calvino è sempre ‘a mostro, e questo libro non è solo un racconto “neorealista” e un pamphlet , ma un terremoto: un coacervo di domande senza risposta, un dirompere di dubbi, di incertezze.
(anche la breve fulminea rivelazione non “sistematizza” il mondo)
E mi è piaciuto assai.

sabato 17 ottobre 2015

Respiro, Winton Tim.

Oltre al gioco del camminare ad occhi chiusi che facevo da bambina, ce n'è un altro che faccio ancora.
Trattenere il respiro. Tanto, più a lungo che potevo, fino a diventare quasi blu. 
[una forma di controllo e di dominio sul corpo]
Ora solo quando sono in macchina e mi rompo le scatole in modo esponenziale. 
Dura pochissimo, chè nei polmoni neri di fumo la quantità di ossigeno che riesco a trattenere è davvero un soffio.   


"Arriva con Jodie.  Non c’è nulla che possano fare. 
La madre ha tagliato la corda, l’ha lavato e l’ha sistemato sul letto. 
“Non credevo che mi avrebbe fatto quest’effetto.
Che cosa? 
E’ il mio primo suicidio, mormora.
Già, non era un bello spettacolo. Però, non si tratta di suicidio.
Cristo, Bruce, hanno dovuto sfondare la porta e tirarlo giù. Il ragazzo si è impiccato. ”

E’ il primo capitolo del libro Respiro di Tim Winton.
Non è un giallo, non è un poliziesco,  ma il perché dell’asserzione di Bruce  - non si tratta di suicidio - lo si capisce solo alla fine. 

Dal ritrovamento del cadavere, Bruce comincia un’immersione nel passato, fin nell’occhio del ciclone dell’adolescenza, quando  l’incontro con un ragazzo di poco più grande,  Loonie,  e poi con Sando e Eva, cambiano il suo modo di “pensare” la vita.  
Giocare a chi trattiene di più il respiro sott’acqua. 

Cavalcare l’onda: il surf, ma non solo.
Era così strano, vedere degli uomini che facevano qualcosa di bello. Qualcosa di insensato ed elegante, che non avrebbe attratto l’attenzione o l’interesse di nessuno. A Sawyer, un paesino di tagliaboschi, operai e contadini, con solo un macellaio e un impiegato di banca. La gente era abituata a fare cose solide e pratiche, usando soprattutto le mani.

Fare qualcosa di straordinario,  sfidare la paura, il dolore, le leggi della gravità. 
Sfidare la morte  per avere il potere assoluto sulla e della vita.


… quando sei giovane hai la sensazione che la vita ti renda impotente, trascinandoti sempre indietro verso la stessa sequela di respiri, in un’eterna capitolazione alla routine biologica, e che il desiderio umano di assumere il controllo sia legato alla capacità di affermare il proprio potere  sul proprio corpo almeno quanto sulle altre persone.”

Non solo l’onda ha un punto di rottura. 


A margine.
Tim Winton,  scrittore australiano pluripremiato in patria e anche all'estero, è davvero poco letto in Italia .
[L'Australia è lontana. Invece l'Ammmerica sta dietro l'angolo.]  



domenica 11 ottobre 2015

L'ora di lezione. Per un'erotica dell'insegnamento.

Mi hanno regalato questo libro in estate.
Durante le ferie estive non lo avrei letto manco se mi avessero pagato.
(staccarelaspinafarfintadiessereunidraulico)
Ora che sono tornata ad annegare nel caos e nell'incertezza del dopo riforma, ho deciso di.
Tanto, quando si sta nell'acqua, aggiungendone un bicchiere non è che cambi molto.
 (però se avessi saputo delle parole di stima dell'autore verso Renzi, una bella nota a piè di pagina, l'avrei proprio suffunnato).

Recalcati  comincia con una pacca sulla spalla alla categoria scamazzata e confusa degli insegnanti, “messi al margine della società, umiliati economicamente e professionalmente e, nello stesso tempo, convocati paradossalmente a esercitare sempre piú la funzione di supplenti di un discorso educativo che sembra non aver piú sostegno né nelle famiglie né nelle istituzioni.

Continua individuando le cause dello “smarrimento della scuola” nella sua attuale connotazione neoliberista,  che elogia il “… primato del fare, e sopprime, o relega in un angolo stretto, ogni forma di sapere non legato con evidenza al dominio pragmatico di una produttività concepita in termini solo economicistici (per esempio, la filosofia o la storia dell’arte alle superiori). Garantire l’efficienza della performance cognitiva è divenuta un’esigenza prioritaria che risucchia le nicchie necessarie del tempo morto, della pausa, della deviazione, dello sbandamento, del fallimento, della crisi.

E fin qua, siamo d’accordo.
Molto d’accordo.

Considera poi la vocazione della scuola nel tempo,   utilizzando idee e concetti  di derivazione psicoanalitica, e   delinea, in base alle caratteristiche della trasmissione del sapere, tre modelli:  Scuola-Edipo, Scuola-Narciso , Scuola-Telemaco.
........
[Mi chiedo se Freud e Lacan  abbiano mai  pensato che si possa  psicanalizzare la qualunque. Mi aspetto in un futuro non lontano persino una disamina in chiave psicoanalitica  del brod’è purp e della parmigiana di melanzane.]

Arriva infine a individuare quella che dovrebbe essere la vera missione della scuola.
L'erotica dell'insegnamento.
Rendere il sapere un oggetto in grado di muovere il desiderio, un oggetto erotizzato capace di funzionare come causa del desiderio, in grado di spostare, attirare verso, mettere in movimento l’allievo

Ohh, e cribbio, eccerto, e ci mancherebbe!

Aspetto con ansia che Recalcati mi fornisca suggerimenti, consigli, appigli, su come rendere erotica la mia ora di lezione – le mie tante ore di lezione -, ammesso che non abbia la presunzione di considerare già le mie prestazioni didattiche altamente erotiche.
Affatanti, anzi.
[Ho sempre cercato di affatare i ragazzi . Son piccolini, posso solo affascinarli, poi con il  tempo, forse…  mi dico]

 “Il dono più grande del maestro non è il dono del sapere ma quello di saper “tacere l’amore”. 
Questo dono è il più prezioso perché non vincola l’allievo ad alcuna obbedienza, ma lo lascia sempre libero di andarsene, di separarsi dal maestro.”

Saper tacere l’amore, scoprirò più avanti nella lettura - perchè all'inizio ho pensato e checazz, senza passione come si fa? io non ci riesco a fare le cose se non sono mossa da passione, la passione è contagiosa, i ragazzini l'avvertono, ed è secondo me l'unico modo per rendere erotica l'ora di lezione - significa non prevaricare con il proprio pensiero e le proprie passioni i pensieri divergenti.
E anche qui ci siamo. Mi pare di essere l’insegnante perfetta.
[E perchè non sono salva dalle frustrazioni?]

Ma se da un lato l’analisi degli aspetti negativi della scuola “smarrita” sono  condivisibili - palesi  e ovvi, almeno per chi nella scuola lavora -, dall’altro non esiste in realtà nessuna  ricetta, nessun metodo, nessun appiglio, nessuna proposta che possa far ritrovare un senso alla Scuola.
L'erotica dell'insegnamento  non può farsi cifra di un cambiamento globale: la capacità di rendere erotico il sapere non la si matura con i corsi di formazione, con le riforme, con le teorie blabla.
La capacità di rendere erotico il sapere c’è o non c’è.
Non è contrattabile, non è estendibile.

 “Sono i maestri che non scordiamo, quelli che hanno lasciato un’impronta indelebile dentro di noi. E’ l’etimo del verbo insegnare: lasciare un’impronta, un segno, nell’allievo.”

Si dovrebbe postillare  che non scordiamo neanche  quelli che hanno lasciato un’impronta in negativo [io lo so perché detesto la matematica.
Magari il “fascino erotico” del metodo di insegnamento delle mie prof.  di matematica ha fatto breccia in senso positivo nella testa e nel cuore di qualche altro allievo]
Inoltre,   non tutti i discenti hanno lo stesso rapporto con “l’erotismo”.
C’è chi soffre del vuoto, c’è chi si sfasteria appena comincia la sfida  - o il cocco ammunnato e 'bbuon o niente oggetto del desiderio.

Il rapporto tra insegnante e allievi è sempre uno a uno,  in entrambe le direzioni, anche quando sembra uno a molti.
E poi,   capita che  si inneschino  dei meccanismi  assolutamente non  configurabili  come paradigmatici per risolvere il dramma della scuola smarrita.
E' lo stesso Recalcati a darne testimonianza.
L’ultima parte del saggio è dedicata al ricordo di Giulia, professoressa di lettere dell’istituto di agraria frequentato dall’autore.

In quegli anni sei stata, Giulia, il mio amore segreto, il pane, la scodella del caffellatte, la sciarpa, le scarpe, i quaderni di appunti, i miei libri, i miei dischi, le prime infatuazioni letterarie, l’interlocutrice silenziosa che accompagnava i miei pensieri, la voce che dolcemente mi invadeva, il volto e lo sguardo che mi riempivano.

E’ il ricordo dolcissimo e struggente di un’infatuazione, di un amore adolescenziale, non dell’amore verso il sapere.
(anche a me piacevano  la voce e le parole del  professore  di italiano del liceo artistico , barba e capello scompigliato – ragazzi, la rivoluzione! –  , e può anche darsi che la sua presenza mi abbia spinto a  scegliere la facoltà di  lettere e non quella più ovvia di architettura.
Salvo poi  subire un piccolo trauma quando volli incontrarlo qualche anno dopo la maturità, nel rendermi conto che aveva confuso, lui il professore, il mio interesse intellettuale con qualcosa di altro.
Rattuso. )

Giunta alla fine del libro  chiedo: e dunque Recalcati?
Come la mettiamo con la scuola smarrita?
Che facciamo?


Scettica e perplessa (assai perplessa) resto.

domenica 23 agosto 2015

Il Genio dell'abbandono

Vincenzo Gemito era chiamato “lo scultore pazzo”.
Febbrile, nervoso, teso alla ricerca di una verità che sottende la pelle, bramoso di cogliere il guizzo, l’essenza.
Consapevole della forza della materia che lui, solo lui riusciva a torcere (non a caso il marmo, non caldo e vibrante come il bronzo, non era il suo materiale prediletto).
Una delle figure di artista in cui è labilissimo il confine tra genialità e follia.

Era stato abbandonato alla nascita e affidato alla ruota dell’Annunziata.
Un esposto, Vincenzo Genito, diventato Gemito per un errore di trascrizione.
(il Gemito: il lamento, il pianto, l’insoddisfazione, ‘a rraggia)

Viciè, e chi se ne fotte del sangue delle origini? Cazzate. E vedi il caso tuo. Non hai avuto padre e madre naturali, ma una forza del fato. Per te c’è stato un genio, il genio dell’abbandono, Viciè. Perché se non ti abbandonavano tu forse non saresti mai diventato Gemito, il grande sculture Vincenzo Gemito!

Non è pura verità però, perché appena abbandonato fu subito adottato; allattato e cresciuto amorevolmente da Giuseppina Baratta, che stava andando al brefotrofio a vendere il latte che suo figlio, nato e morto quasi subito, non avrebbe potuto sucare.
Amato più di un figlio naturale da Giuseppina e dal suo primo e anche dal secondo marito, Mastro Ciccio.

Il libro della Marasca racconta della vita di Gemito in medias res, dalla fuga dal manicomio.
Flash back ricostruiscono la storia della famiglia adottiva, l’ infanzia di Vicienzo, l’apprendistato nelle botteghe di maestri che insistevano a fargli fare il disegno delle “recchie”, la maturazione artistica (il vero, il vero, rincorso nei pescatorielli e nei lazzari, Gemito lazzaro tra i lazzari, un soldo per una posa immobile dentro alla grotta/laboratorio) i rapporti con gli altri artisti e con i mecenati, la passione turbinosa verso Mathilde Duffaud, l’esperienza parigina.
Sono pagine bellissime, dinamiche e vitali, sul cui sfondo c’è una Napoli vivace e vaiassa, miserabile e creativa, densa e fonda e luccicante.
Come la lingua che usa la Marasco, corposa, plastica, espressionistica come un bronzo o un disegno di Gemito, annegata nel dialetto e nel popolare ma mai sciatta.

Wanda Marasca  Gemito
La seconda parte del romanzo, in cui si racconta l’autoreclusione dell’artista nella stanza laboratorio di via Tasso (diciassette anni di segregazione) - il suo diario, allucinato, atturncinato, scumbinato, e il discorso diretto libero che molto più di frequente incide nella storia – è più pesante e faticosa.
Riflette comunque la condizione mentale dell’artista il cui ego ipertrofico si arrocca sullo scoglio.
(Manco della morte della madre se ne addona. E cerca a tutti i costi di resuscitare Nannina, perché lui doveva, lui come Dio, fare il miracolo della vita)
Eppure Gemito non fu mai solo o abbandonato.
Gli facevano visita amici artisti e intellettuali, pure Scarfoglio e Donna Matilde che “ pare n’ommo. Tiene grandi zizze ma pare ommo”.
La moglie Nannina e la madre quando erano vive, Mastro Ciccio e la figlia Peppinella (che teneva i segni della mano paterna, il bitorzolo sulla fronte e sul naso, sbattuta sul muro quando era neonata perché chiagneva), ne avevano sempre avuto cura premurosa.
L’ingresso in casa della Duchessa Elena D’Aosta , la richiesta di una commessa “reale” che cancellasse l’onta di Capodimonte - le mazzate d’è guardie e il trionfo in oro e argento mai portato a compimento - lo liberò dalla autoreclusione.
Gemito continuò a cercare, inquieto, a Parigi e nei vicoli e ovunque, il vero che sta oltre la cortina della pelle e dello sguardo, fino alla morte.
Un funerale ciclopico, quello di Gemito.

Non fu mai solo e mai venne abbandonato.
Eppure le tante persone che lo circondavano erano per lui fantasmi, ombre, pantomime.
L’unico vero ingombro, la sola vera presenza, pur se inafferrabile, era quello del genio.
Questo genio dell’abbandono, oltre che a Napule gli era andato dietro pure a Parigi, pure dint’’o manicomio? Era prestigio o dannazione? Questo genio che cazzo vuleva ‘a isso?
Se lo figurò come un Dio travestito da zengara o ommo d’’o puorto. Portandolo a Napoli, lasciandolo sulla ruota, lo aveva consegnato a una materia alchemica che parteva dall’argilla e ferneva all’oro.

Ah, l’artista.
Che bel romanzo, che passione e quanta vibrazione.
Che bello pensare che un lazzaro ignorante potesse parlare a tu per tu con i re e con gli intellettuali.
Gemito aveva l’Arte nelle mani e il Genio nella mente.

(Meglio non essere artisti, ci sta da essere assai infelici, più di quanto è concesso alle vite semplici. E anche quella infelicità è troppa)

venerdì 21 agosto 2015

Pa(e)(s)saggi in Europa. Sette: Slovenia e Croazia

La tappa finale del viaggio prevede qualche giorno in Croazia, da trascorrere schìati al sole.
"Senza mare non pare estate."
Ma si può attraversare la Slovenia da nord a sud, attraversamento certificato dall’ennesima Vignette, senza farci manco una piccola sosta? 
Certo che no. 

[Penso all'ex Yugoslavia.
La Slovenia fu la prima  a tirarsene fuori, con una guerricciola durata meno di un mese. 
Cazzi amari, invece per la Croazia  e le altre ex repubbliche socialiste.  (per non parlare del Kosovo).
Solo questione etnica?
No di sicuro.
Però, quello che salta proprio all’occhio in Slovenia, è  la profusione di bandiere dell’Unione Europea. 
(Slavo a chi??)]

lungofiume Maribor
Maribor è la seconda più grande  città della nazione, dopo Lubiana, la capitale. 
La parte vecchia e la nuova sono divise dal fiume Drava.
La città vecchia si gira in un'oretta: di notevole ha l'andamento slow.
La vite più antica del mondo, la maggiore “attrazione turistica” della città,  non è  poi così sconvolgente – vabbuò, magari per un botanico o per un enologo, ma a me della vite interessa esclusivamente il prodotto finale e non vado manco per il sottile .
I cigni sono i padroni del lungofiume.
(tu ti sposti, loro manco per il collo)
Maribor capitale europea della cultura
Dappertutto manifesti locandine targhe che rimembrano il 2012, anno in cui è stata capitale europea della cultura. 
Capitale europea della cultura??? 
Vabbuò, ci sta un bel teatro, ma c’è anche tanto sfracello, come una casa in  ristrutturazione, o come quando c’è da ricostruire dopo un terremoto o un millennio di abbandono. 
Ci sarebbe tanto da chiedersi riguardo le candidature e la scelta delle città destinate ad entrare nell’elenco delle capitali europee  della cultura.
(per non dire delle capitali italiane della cultura)
E anche del valore – in tutti i sensi -  che ha questo riconoscimento.

Passato confine tra Italia e Austria, tra Austria e Germania, tra Austria e Repubblica Ceca, tra Repubblica Ceca e Polonia, tra Austria e Slovenia, nessun controllo, libera circolazione.
Confine Slovenia/ Croazia. 
Una lunga teoria di auto.
La Frontiera.
La Frontiera si presenta come un casello autostradale doppio, solo che invece di ritirare il biglietto si mostrano i documenti:  primo casello  controllo sloveno in uscita, secondo casello a 10 metri di distanza  controllo croato in entrata. 
Cosa può  mai cambiare in 10 metri? 
Non si fidano i croati del controllo degli sloveni?
La Croazia non è nell'area Schengen. 
Realizzo quanto sarebbe bello un mondo tutto senza alcun  confine diffidenza muro. 

Al mare, Porec/Parenzo Istria, ultimo sprazzo spruzzo del viaggio, causa previsioni del tempo, che dicono brutto ma poi  “s’arape”  che è una meraviglia, è sottratto un giorno,  riempito dalla visita di un paese ad una trentina di chilometri dalla costa.
Montona/Motovun



Motovun/Montona è  un borgo medievale arroccato su una collina: conserva ancora la cinta muraria e alcune parti di edifici. 
Sembra di stare molto più in alto dei 230 metri sul livello del mare.


E' meta di pellegrinaggi gastronomici, tartufo sbandierato in ogni salsa.
Infatti ci sono un cuofano di turisti, e  tanti negozi di souvenir, e tantissime botteghe che vendono tartufi e oli tartufati e creme e salsine. 
(e il wifi free nella piazza principale)
C'è un uomo curvo in un vicolo, sotto un ombrellone, che lavora il legno in modo quasi autistico. 
Intaglia su tavolette di legno di tiglio rami di fiori, il paesaggio di Motovun, pesci;  a memoria e con la rapidità di chi lo fa per gioco e per amore. 
Le mura in mattoni del vicolo sono piene di tavolette.  
Ne avrei comprate tante. 
Mi devo accontentare di una piccola. 
Il lavoro artigianale è sempre una meraviglia. 

L’Istria, almeno la parte costiera attorno a Porec/Parenzo, non può dirsi salva dall’espansione urbanistica e dalla cementificazione.
E neanche da un certo disordine. 
(villaggi residence alberghi villette villini casette casaruoppoli a mappate)
Parenzo/Porec
Però. 
L’accesso al mare non è concesso a qualcuno: è  garantito a tutti.
Non esiste  l’idea di privatizzare o lottizzare o rinchiudere il mare. 
Gli scogli e le rocce, che non si può parlare di spiaggia, sono attrezzati in modo da poterne usufruire: piattaforme e scalette che permettono di entrare in acqua senza scassarsi i piedi o rompersi le corna, docce, spogliatoi. 
Tutto gratuito.
Gratuita anche l’ombra naturale data dagli alberi che s’affacciano  sull’acqua.
Ombra profumata. 
Perché dove vivo io devo comprare l’accesso al mare pagando la discesa allo stabilimento balneare, o in alternativa devo rischiare il tetano camminando in una striscia di spiaggia superaffollata chien’e munnezza?
Cosa succederebbe se, pur attraversando la striscia di spiaggia libera, mi andassi a mettere sul bagnasciuga  prospiciente  il villaggio esclusivo con le mie bagattelle e il mio seggiolino e asciugamano? Ma anche senza bagattelle e seggiolino, eh. 
A Vsar  si può, a Parenzo si può, a Funtana si può. 
In Croazia si può.
(Le concessioni balneari  e le “spiagge private” sono un assurdo)


Ultimo giorno. 
Il momento che preferisco comincia verso le sette del pomeriggio, quando  l'aria si fa tersa e rosata,  e il sole piano cala per affondare nel mare.
Attimi di incomparabile bellezza.



Ma. 
Ci ho bisogno di arrivare fin quassù? 
Il sole non nega la bellezza dei suoi colori al tramonto neanche allo  sconcico che a perdita d’occhio si rivela sin  dall’uscita dell’autostrada, già sull'asse mediano. 

Marò e che tristezza tornare a casa.

mercoledì 19 agosto 2015

Pa(e)(s)saggi in Europa. Sei: Vienna

Secondo la  meticolosa e paranoica organizzazione del viaggio, nel percorso tra Cracovia e Vienna ci sarebbe dovuta essere una piccola deviazione con breve sosta agli Alvernia Studios, di  cui avevo visto sul web delle foto innamorandomene repente.

Cracovia ufo
Alvernia Studios
















A


Avevo rinunciato  all’idea di mandare mail per impetrare una visita degli interni – e in che cazz di lingua parlo, se mi dicono di sì?? , ma contavo almeno di immortalarmi all’esterno – è domenica! parcheggio sgombro da auto! nessuno al lavoro, condizione ideale! – per poter poi spararmi la posa di essere stata nella base spaziale di una colonia di venusiani, approfittando di una frattura spazio/temporale.  
(elloso…)
Già in andata – seppur  di sfuggita, un’epifania -  la vista del complesso dall’autostrada aveva un po’ turbato le aspettative: a distanza più o meno ravvicinata  non è propriamente ammaliante come nelle foto. 
Ah, le foto abbellenti!
Una trappola e un inganno.
Già avevo fatto i conti con il castello di Neuschwanstein.
Bellissimo sì, ma non stupefacente  come appare ripreso nello scenario autunnale, o nel luccicchio della neve invernale: in realtà prevale un imponente grigio.  
(il grillo parlante che alberga dentro di me fa le capriole) 
Il mostruoso ritardo sulla tabella di marcia – eccheccazz, siamo in vacanza, putessim durmì almeno fino alle 9,00?? – e  l’inzallanimiento del navigatore che preferisce le strade sterrate di campagna alle nuove bretelle similautostrada ci mettono il carico da 11.
Niente foto con ufo. 
Però mi dispiace lo stesso, soprattutto perché non posso scamazzare il grillo, in mancanza di verifica esaustiva in loco.

Vienna è principesca. 
Marmi bianchi, statue, fregi, ori, giardini, fontane, pompa magna a profusione.
Oro a profusione anche nelle espressioni artistiche della Secessione, dall’omonimo  Palazzo alle opere di Klimt.
Vienna è cultura, soprattutto musei. 
I biglietti costano una cifra blu, è necessario fare una selezione. 
Due su una mappata. 
(e se i due sono come la mappata, si è perso parecchio, eh)
Il MuseumsQuartier, che si estende alle spalle degli  imponenti edifici che ora sono Museo di Storia Naturale e Museo della Storia dell’Arte, è fighissimo.
 Nel cortile interno, dove ci sono caffè e localini, e   strane panchine e installazioni artistiche, bazzica una variegata fauna composta per un quarto da bambini, per un quarto da turisti, e per la  restante metà da  artisti e artistoidi, forse anche turisti artisti e artistoidi.


Panorama dal museo Leopold
Museo Leopold





Il 










Il museo Leopold è  Schiele & friends.
Soprattutto Schiele. 
Un pazzo, ma quanto amo il suo tratto nervoso!
Dopo la ricostruzione dello studio del pittore, c’è una sala meditativa. 
Si accede salendo qualche scalino. 
Alcuni divani rossi, e una parete interamente di vetro che permette l’osservazione dei tetti della città. 
Già stare seduti su quei divanetti – a pensare, naturalmente - forse vale il biglietto. 

Al piani superiore del Castello del Belvedere c’è Klimt.
Veramente c’è anche molto altro:  i Romantici, i Neoclassici, i Barocchi, (e il medioevo e e e ) e ancora Schiele e Kokoschka, ma nessuno se li fila. 
La ressa è per Klimt. 
Anzi, la ressa è per il  Bacio di Klimt.

Klimt, ritratto di Josef Lewinskj
Ma io sono  attratta irresistibilmente da un paio di  tele non finite, e soprattutto da un piccolo quadro che non ho mai visto né sui libri di storia dell’arte, né sul web. 
E’  ritratto l'attore Josef Lewinsky nel ruolo di Carlos, un personaggio del Clavigo di Goethe, dipinto da Klimt nel 1895. 
Ha un qualcosa di magnetico e inquietante, nella cornice in cui le foglie d’oro si alternano alle foglie grigie, una texture elegantissima, e nelle figure laterali che sembrano generarsi da un braciere e come nuvole sfumano. 
(un quadro metateatrale)
Klimt mi ha sorpreso per la capacità camaleontica di mutare stile e segno. 
Davanti ad un suo quadro ho pensato a Van Gogh.  


E poi sono rimasta in estatica contemplazione di una firma, una sola così, inscritta geometricamente dentro un quadrato, proprio come quelle di Schiele. 


Che devo fa, mi intrippano le “divergenze”. 





Mi piace Hulk che spadroneggia nella sala terrena del Belvedere...










... mi piace Hundertwasserhaus, la casa - ho pensato a Gaudì -  che interrompe il giallino il grigiolino il beigiolino degli edifici del quartiere con un’esplosione di colori.
Una botta di vitalità, peccato non poterne vedere gli interni, ma doversi accontentare di gironzolare nell’Undertwasser Village

Sembra di stare all’aperto stando al chiuso. C’è il bar, nella piazzetta – ahem, nello spazio  centrale, e poi tutt’attorno negozi di souvenir, e ai piani superiori negozi di souvenir…
Mi piace Hulk e mi piace l’Undertwasserhaus perché spezzano un ordine. 

Vienna mi sembra algida. 
Si va a dormire presto e non si esagera quando si beve. 
Grinzing, ad esempio. 
E’ una tappa obbligata per chi voglia provare il vino nuovo, per chi voglia vedere una Vienna agreste e bucolica a un soffio dalla metropoli. 
Cosi dicono. 
La differenza tra la metropoli e Grinzing c’è.
E l'unico posto di Vienna dove ai 5 piani regolamentari (sia che si tratti di case moderne che di edifici ottocenteschi) si sostituiscono villini e case basse.
(Grinzing era l'ex collinetta di salubrità per gli agiati)
Alle 23 è buio pesto.
Tutto tace, silenzio assoluto.  
Non so come sia  nel pomeriggio o di mattina, anche se  non credo meglio, con orde di turisti vomitati dagli autobus.
Così dicono. 
Certo è che già alle 10 di sera c'è aria di dismissione. 
Cenerentola fuggita dal ballo un’ora prima del previsto. 

Vienna la ricorderò per i tre colori: il bianco, l’oro e il nero. 
Il bianco e l’oro imperiale e il nero delle incappucciate.
Tante, tantissime donne con il velo, molte con il chador, alcune con il burka, la maggioranza con  l'hijab.
Sembrano essere più delle donne a capo scoperto. 
Eppure si fanno i selfie con i cellulari. 
Eppure sculettano manco una pin up.
Eppure passeggiano   in grupponi ridendo e occhieggiando.
Le strade attorno a Stefanplatz sono elegantissime: solo negozi grandi firme alta moda, Chanel, Gucci, Ferragamo. 
Un'incappucciata entra da Cartier. 
Mi chiedo cosa comprerà mai da ostentare al chiuso del tendone che la ricopre. 
Se i comportamenti e i bisogni sono quelli demoniacamente occidentali, che senso ha, allora, marcare esteticamente una differenza?
Ah, vero, bisogna non omologarsi. 
L’ultima immagine che si imprime, in una fresca serata nel centro di Vienna, è ancora di una donna.
Ondeggia, sotto il mantello nero finemente ricamato sul davanti, sulle maniche, sinuosa e elegante. 
Ha un viso bellissimo, un incarnato leggermente ambrato, ciglia lunghissime e fondi occhi blu contornati dal kajal.
Le labbra colorate da un rossetto lucido. 
Una bambina le tiene la mano.
Ondeggia e nell'aria si diffonde un profumo intensissimo, dolce e speziato.
(io che detesto i profumi non posso riconoscerlo, ma di sicuro non è di quelli che si sentono in giro. E’ proprio un profumo “attraente”)
La scia persiste anche quando si allontana. 
Dietro, a qualche passo, la segue un'asiatica. 
Spinge un carrozzino su cui è seduto un capriccioso bambino.
L'asiatica ha una divisa rosa con cuffietta e zoccoli olandesi anch'essi rosa.  
Due donne. 
Non credo che quella messa peggio sia la donna nascosta dal mantellone nero. 

Adesso, come prima,  le uniche vere differenze sono tra chi ha i soldi  e il potere e chi non ce li ha. 
Bianchi, neri, a stelle, a strisce, a pois. 


In manovra di riavvicinamento a casa, si attraversa la Slovenia.


Le tappe precedenti.
Uno: Lazise, lago di Garda
Due: Tirolo e Baviera
Tre: Salisburgo e dintorni
Quattro: Cesky Krumlov e Praga
Cinque: Auschwitz
Cinque: Cracovia


lunedì 17 agosto 2015

Pa(e)(s)saggi in Europa. Cinque (b): Cracovia, Miniere di sale di Wieliczka

Da Auschwitz/ Oświęcim, dopo aver cambiato qualche euro  per poter fare la pipì, che nelle toilette che si trovano nell’aera del sito si può entrare solo previo pagamento in zloty –  naturalmente vi è anche l’ufficio di cambio -  partiamo verso Cracovia, che dista circa 80 km. 

Cracovia, pur essendo una delle più antiche città della Polonia,  è una città giovane.
(indistintamente giovane: alla sera calano anche certi truzzoni, nel centro. 
I tamarri si riconoscono a qualunque latitudine)

Il centro storico, che si estende in una sorta di ovale ideale dalla fortezza del  Barbacane  fino alla collina del Wawel, dove c’è il borgo del Castello, è delizioso. 
Nessuna folla magmatica di turisti: è un passeggio rilassato, solo i piccioni sono  invadenti.
(così tanti piccioni li ho visti solo a Venezia).
La piazza Rynek Glowny, enorme, una vera piazza d’armi, è “tagliata” dal fondaco dei tessuti, un edificio rinascimentale che doveva essere una vera meraviglia quando era mercato dei tessuti: adesso è il luogo della goduria souveniristica.
(ma è pur sempre bellissimo) 
Sui lati della piazza c’è una fila di carrozzelle trainate da cavalli impernacchiati di rosso, guidate nella stragrande maggioranza da belle figghiole (proprio belle) in costume:  mi meraviglio di come non ci siano né puzza né tracce di cacatone. 

Un promoter di tour  turistici – molto meno invasivi che a Praga -   ci individua attraverso le scarpe. 
“Sxxxxxx? Italiani!”
(meno male che parliamo poco)
Decliniamo l'invito per il tour ma accettiamo il consiglio per un buon ristorante dove si mangi qualcosa di veramente tipico.
Ci indica approssimativamente un locale "alle spalle della piazza del mercato, con i fiori nell'insegna dove fanno 25 tipi di pierogi, e solo pierogi."
Trovarlo è un’impresa. 
La piazza del mercato è enorme e anche le sue spalle sono enormi. 
E poi, tanto per,  gli italiani esagerano sempre. 
Sono 10 i tipi di pierogi, non 25.  Di cui due dolci.
Un locale caratteristico assai, sia per gli arredi, sia per le modalità di servizio. 
Self service. 
Ci vogliono un pò di tempo e  attenta osservazione verso gli avventori – polacchi soprattutto - per capire che una volta preso il tavolo, bisogna alzarsi,  ordinare,  pagare, portarsi le bevande e le posate al tavolo  e aspettare che chiamino il proprio numero.
Pronti i piatti, li si va a ritirare. 
Dopo, si portano direttamente allo sportello della cucina, oltre il corridoio. 
Un vero self service.
Non capisco in cosa siano cotti i pierogi. Forse in un brodo di cipolla. 
E se l’aspetto vagamente ricorda i ravioli, il sapore innesca un immediato moto di nostalgia. 
(marò, i ravioli al ragù!)
Per digerire lo gnommero dei pierogi, urge una solerte camminata fino alla collina del Wawel, dove ci sono il castello Reale e la Cattedrale (e altro, che il “castello” è un complesso di edifici, come a Praga)


Della leggenda del drago sputa fuoco sconfitto e costretto a bere tutta l'acqua della Vistola, che adesso in fissità bronzea sputacchia fuoco a uso e consumo dei turisti, sapevo.
Ma della tana del drago no.
Vedo un caseruoppolo sul  belvedere appena sotto il castello.
Penso ad una scorciatoia, ad  un ascensore a pagamento per ridiscendere velocemente  la muntagnella e trovarsi ai  suoi piedi senza colpo ferire. 
Non ascensore, ma scala a chiocciola. 
 [ecchecazz, si paga  per  scendere con la pedicolare?? ]
Entro, dopo aver fatto il biglietto, e  impegnando la scala a chiocciola,  mi rendo conto della sua spropositata lunghezza - ma addo s'arriva? In culo a Lucifero? - con relativo ruotamento di capa, e   realizzo che non è una scorciatoia. 
Non certo la tana di un drago, ma una grotta freschissima  che alle spalle della statua del  drago sbuca.  
Forse qualche povero diavolo - mò ci vuole - finì al fresco i suoi giorni qua - nel vero senso della parola.
Niente di imperdibile, se non per il refrigerio dalla calura, e per l’idea che si è sotto il livello del fiume, che giustifica l’acqua sulle pareti e le gocciole e le pozzanghere.
Però  manco la sputazzata di fuoco del drago riesco a vedere , nella luce abbagliante,  solo qualche scintillina. 


Le Miniere  di sale di Wieliczka sono il must delle escursioni nei dintorni di  Cracovia. 
Pochi chilometri, una visita quasi obbligata. 
Il sale e la ricchezza sono accomunati dallo stesso gesto,  due dita che si strofinano, cambia solo il verso.
La miniera di sale era la ricchezza del passato. 
I turisti sono la ricchezza del presente.
I turisti sono il sale della  miniera di sale.

Un'infinità di scale.
Molti metri sottoterra. Molti molti. Il pensiero stravolge.
Mai però si avverte sensazione di claustrofobia, a meno di non voler pensare costantemente che la superficie è  oltre 100 metri sopra la propria testa. 
La miniera conserva i segni del lavoro e della religiosità. 
I segni del lavoro sono ricostruzioni scenografiche (fanno un po’ Gardaland) e attrezzature e strumenti. 
I segni della religiosità sono  bassorilievi, statue, l’intera chiesa sotterranea, tutto ricavato dalla stessa pietra nella quale si scava il salgemma. Alcune consumate dal tempo, altre conservate meglio.
In una cava vicino al bar stanno allestendo dei tavoli per un matrimonio. 
Sposarsi nella miniera, a 120 metri di profondità;  un matrimonio sotto sale si conserva forse meglio? 
Certamente la miniera è una macchina per produrre ricchezza, bel oliata e molto ben organizzata – millanta attività, non solo matrimoni, anche corsi di cucina, pernottamenti benessere, oltre a una vasta gamma di "percorsi": una vera “attrazione” turistica. 
Però ne esco in parte soddisfatta.
(non avevo mai visto la vena di salgemma dentro la roccia, già solo questo)
Destino, fato, ciorta:  gran parte dell’entusiasmo è comunque  merito della competenza e della simpatia della guida, che oltre a spiegare con gran dovizia di particolari, con sagacia e ironia, risponde a tutte le domande e le curiosità.  
(mi poteva capità una così ad Auschwitz!)
Il percorso turistico si interrompe ben lontano dall'uscita, in un grappolo di cave rispettivamente adibite a shop ( ve ne è uno anche a metà percorso), a ristorante self service, a sala proiezione multimediale. 
La nostra guida parlante italiano prima di lasciarci ci comunica che per uscire bisogna, in gruppone multilingue, raggiungere l'ascensore. 
Ce ne sono due.
Uno porta vicino all'ingresso della miniera, uno in paese, più lontano, dove un’altra guida condurrà il gruppo fino al sito. 
Impossibile scegliere.
Dal momento della presa in carica del gruppo misto di 40 persone,  un tizio parlante esclusivamente polacco, a passo rapido rapidissimo ( e meno male che si sta freschi) ci conduce verso l'ascensore. 
Un percorso lunghissimo.
Ogni tanto il tizio si ferma e "zwjkaskzwakkwzz!!" dice qualcosa che mi fa pensare ad un ordine, ad un comando:  una comunicazione vitale di cui non capisco un cazz. 
(E sarò morta.)
Poi finalmente si arriva all'ascensore, nel quale siamo stipati all'inverosimile. 
(Ora si blocca e mi mancherà l’aria.  
E sarò morta.)
Ovviamente quale ascensore ci riserva il destino? Quello in paese, of course. 
Si cammina veloce dietro la guida superficie, passando repente dai 15 gradi di sottoterra ai 33 dell’esterno.
Da questa seconda parte della visita ne esco molto meno soddisfatta.

Cracovia Museo dell'ingegneria



Forse sarebbe stato meglio visitare il Museo dell’ingegneria, le cui mura perimetrali e il cui cortile, nel bel mezzo di Kazimierz, mi hanno intrippato parecchio.



(ma che è? La facciata della fabbrica di Schlinder e della Stazione ferroviaria che ci fanno piazzate qua dentro? Ma che è ‘sto posto??)
Era chiuso, il posto. 
Non ho potuto che dare una sbirciatina attraverso i cancelli chiusi. 



Kazimierz è il quartiere ebraico di Cracovia. 
Di ebraico resta poco. 
Qualche sinagoga, qualche iscrizione, e molti ristoranti  poco ebraici se non  per i musicisti che suonano melodie yiddish davanti ad un candelabro a sette braccia tra i tavoli, nella piazza prospiciente la Vecchia Sinagoga.
E nonostante gli occhi sguarrati a trattamento Ludovico, non sono riuscita ad individuare neanche uno degli edifici o delle strade dove è stato girato Schindler's List. 
Per il resto il quartiere è molto hipster, pieno di  localini alternativi e localini “aperti” alternativi, come questo. 



Già si riparte, purtroppo.  



Mannaggia,  non ho avuto neanche il tempo di scoprire la funzione di certi orpelli metallici che si trovano alla base di porte e portoni,  di cui i più significativi, per dimensioni, si trovano proprio sotto l'arco, uno per lato, della porta Floriana. 
Ma comm'è che nessuno li nota??



Da Cracovia – bella bella Cracovia - di nuovo in Austria.


Le tappe precedenti.
Uno: Lazise, lago di Garda
Due: Tirolo e Baviera
Tre: Salisburgo e dintorni
Quattro: Cesky Krumlov e Praga
Cinque: Auschwitz




sabato 15 agosto 2015

Pa(e)(s)saggi in Europa. Cinque (a): Oświęcim, Auschwitz/Birkenau, Polonia

Cracovia, anzi Auschwitz, l’ombelico del viaggio, il centro attorno al quale sono stati pensati gli altri passaggi. 
Su Google maps Auschwitz non c’è. 
Nelle indicazioni stradali non comparirà mai se non quasi arrivati al sito.
Si va  verso Oświęcim, il nome polacco che aveva la località prima dell’invasione nazista e di cui i polacchi si sono giustamente riappropriati. 
L’ingresso è libero e gratuito, formalmente, ma per “disciplinare” l’affluenza, nei mesi di luglio e agosto è possibile fare la visita solo con la guida, previa prenotazione. 


E’ comunque molto più conveniente prenotare direttamente sul sito e andarvi in autonomia, piuttosto che affidarsi alle agenzie turistiche che organizzano il tour:  certo, è incluso il trasporto dai punti convenuti a Cracovia o il prelievo diretto dall'albergo, ma il costo è più che triplicato. 
Certo, affidandosi alle agenzie o partendo da Cracovia  si riduce il rischio di inconvenienti, come trovare una fila di otto chilometri otto  - fila compatta e seminamovibile  dovuta a “lavori in corso” - poco prima di Brno, e vedere l’orologio del navigatore che indica l’orario di arrivo a destinazione sovrapporsi  all’orario di ingresso indicato sulla prenotazione. 
Certo, affidandosi alle agenzie o partendo da Cracovia si riduce il rischio di inconvenienti legati agli accidenti atmosferici, come un temporale di dimensioni catastrofiche, un muro d’acqua così denso e spesso da non lasciare vedere la strada (sconosciuta), anzi da dare la sensazione di trovarsi dentro un autolavaggio, con conseguente spostamento dell’orario di arrivo a destinazione ben oltre l’orario di ingresso indicato sulla prenotazione.
(Eccheccazz, tutto il viaggio è stato costruito su Auschwitz,  mò va a finire come per Pamplona e la festa di San Firmino dell’anno scorso?!?)

Sfidando i millanta limiti di velocità, complice la buona sorte, riusciamo ad arrivare pelo pelo, giusto il tempo di lasciare le borse al guardaroba –  all'ingresso vi sono più controlli che in aeroporto dopo un attentato terroristico, gli addetti alla  sicurezza hanno anche un cartoncino che indica materialmente le misure consentite per le borsette che possono entrare coi loro proprietari, borsellini in pratica -  , di superare i vari varchi (primo: lettura ottica del codice sui biglietti, secondo: metal detector come in aeroporto appunto, terzo: ritiro cuffie e audioguida) e ci si ritrova in coda al gruppo già radunato attorno alla guida. 

Ci sono silenzio e compostezza:   chi sceglie di visitare Auschwitz sa, ha la consapevolezza di essere lì, in Quel Luogo. 
I gruppi, con la propria guida,  sono formati al massimo 20 persone. 
Nel campo ci si muove compatti in  file serrate, a discreta distanza le une dalle altre. 
La nostra guida si chiama Marco. 
E’ flemmatico.
E’ svogliato.
E’ annoiato. 
Senza sapere, nessuno immaginerebbe quel luogo come l’inferno in terra. 
Sembra un quartiere operaio dismesso: è  tutto cosi ordinato, lindo, pinto, silente.
Se una voce non evoca i rumori, i suoni, gli odori, le storie, le vite, senza  la narratio, il luogo  si depotenzia tantissimo.
Mi sono auto-raccontata.
Ho considerato dimensioni, distanze, materiali. 
Ho realizzato la misura, nel vero senso della parola, della sistematicità dell’orrore. 
Nel nostro gruppo ci sono tre  ragazzini: due  si annoiano presto e si siedono per terra ad aspettare il ritorno dei genitori dalla visita. 
Capisco la loro indifferenza anche se non l'approvo. 
[La nostra guida forse avrebbe dovuto fare  il lavoro di controllo biglietti. 
I genitori forse avrebbero dovuto fare meglio i genitori]

Marco dice pochissimo, parla di numeri – ripete sempre gli stessi - e quello che dice non è nuovo. 
Del resto cosa aggiunge ad una foto in cui si vedono da un lato la fila dei deportati e dall’altro i nazisti dicendo: qui sono i deportati e qui i nazisti? 
Ma colgo, tra le rarissime didascalie, più che spiegazioni, delle  sfumature. 
Rarissimamente parla di ebrei. 
Più di una volta dice  di “ registrati senza alcuna differenza di ordine religioso.”
Sento come una sorta di risentimento:  i milioni di ebrei mandati a morire   offuscano le prime vittime dei nazisti, i polacchi. 
Il dramma gigante degli ebrei deportati ad Auschwitz da ogni punto dell’Europa occupata dai nazisti, ha nascosto il dramma –numericamente meno consistente, ma non per questo  meno importante – dei polacchi. 
Il campo era stato costruito per loro. Prigionieri politici. 
I villaggi attorno al campo furono rasi al suolo e i contadini internati. 
(Sette fattorie, dice Marco, c’erano a Oświęcim, attorno alla caserma dell’esercito polacco prima che diventasse Auschwitz)
Nelle case che si costruirono attorno vennero mandati i coloni tedeschi. 

[Mi viene il dubbio che la gestione e la volontà di farne museo e memoriale, almeno inizialmente,  sia legata a qualche ricca eminenza ebrea, non alla generalizzata volontà polacca che, forse, e dico forse,  avrebbe preferito dismettere, riconvertire, come è successo a Monowitz]

Sfumature: nessuna differenza di ordine religioso. 

In alcuni edifici  - block, il termine accomuna sia le palazzine in mattoni di Auschwitz che le baracche  di Birkenau - si entra. 
Ad Auschwitz le stanze sono vuote al centro, spoglie;   tutto è schiacciato sulle pareti, foto o grandi vetrine di profondità variabile, da uno a quattro metri, nelle quali, come in depositi o segrete, sono ammucchiati  oggetti.
Occhiali, tutti tondi e in metallo, migliaia e migliaia.
Pennelli da barba e pettini;  capelli;  abitini da neonato;   valigie, alcune con i nomi e indirizzi segnati, alcune con grafie elegantissime. 
Scarpe, 43000 paia: davanti, in primo piano, anche se in apparente disordine, le scarpe femminili con tacchetti, nastri, stringhe, ricami. 
Dietro una montagna di scarponi maschili. 
(Non è solo questione di estetica, la scelta di disporre così le scarpe. Le calzature femminili sono più distinguibili, hanno una varietà che fa pensare all’individualità, mentre gli scarponi maschili, eh, quelli conferiscono l’idea di massa indistinta)


A tre chilometri da Auschwitz c’è il campo di Birkenau,  Auschwitz 2.
Di Buna/Monowitz,  che sarebbe dovuto essere una mega fabbrica di prodotti  chimici,  dove fu deportato Primo Levi - il terzo dei campi che amministrativamente dipendevano da Auschwitz, insieme ad un’altra cinquantina di sottocampi/fattorie  dove i prigionieri lavoravano come schiavi contadini o schiavi operai -  non è rimasto niente.

Birkenau costituisce la seconda parte della visita guidata. 
Si raggiunge con un autobus/navetta: la partenza ogni sette minuti. 
(Ci vediamo lì tra venticinque minuti, avete tempo per caffè o comprare libro – dice Marco)
A Birkenau ci sono i binari che conducevano direttamente alle camere a gas. 
Oltre all’ingresso, ai binari, ad una locomotiva, alla recinzione in filo spinato, a qualche torretta, in piedi restano una ventina di baracche:  si intravedono tracciati di altre baracche, e un cumulo di  macerie segna il luogo dove c’era un crematorio. 
Solo in una baracca, dove sono disposte in stanze/pollaio i tavolati a castello su cui gli internati agonizzavano sonni, si entra. 
Non c'è nessuno oltre il nostro gruppetto di diciotto persone ripulite e profumate e fa un caldo bestiale. 
Non oso immaginare il calore e il fetore quando in quegli stessi spazi vi erano stipate centinaia e centinaia di esseri ormai quasi non più umani. 

All’estremità opposta all’ingresso del campo vi è il monumento commemorativo, davanti al quale ci sono tante lapidi, ognuna riporta lo stesso "pensiero" nelle lingue dei popoli che hanno vissuto la deportazione: quella con la scritta in ebraico è l'unica ricoperta di fiori e candele.
Nei pressi del monumento commemorativo ci sono  uomini e donne, alcuni in divisa: uno ha una tromba, un altro sta issando la bandiera di Israele, un altro ha la videocamera su un treppiede, altri aspettano qualcosa.
E' come se si preparassero per una rappresentazione.
Un altro gruppo, più numeroso, sosta più lontano ancora.
Chiedo alla guida cosa stiano facendo. 
Mi fa strano. Perché in divisa?
Risposta laconica.
"Ogni tanto fanno una commemorazione"
Si gira e se ne va. 
Come se l'interesse verso gli ebrei,  ancora una volta, avesse offuscato un’altra memoria.

(Sfumature)

Le fonti mute hanno bisogno di voci che le interpretino, che le raccontino.  

Ho  l'impressione che i polacchi abbiano verso questo luogo che è diventato gallina dalle uova d'oro un rapporto di odio/amore.
Più di odio che di amore, nonostante le uova.

Mi è  rimasta la curiosità di sapere, e  una brutta sensazione di spreco, di inutilità, anche se continuo a pensare che sia  - e sia stato anche per me  -  un pellegrinaggio necessario.