sabato 20 settembre 2014

Il dito e la luna: cronaca di una lettura. Casa d'altri e altri racconti.

Quasi un anno fa, due giorni ad un anno. 
Facciamo un incontro su un racconto di Silvio D’Arzo. Su Skype, basta che ti metti le cuffie.
(sticazzi quando penso a Skype, che mi funziona da cecata a sorda, io vedo e non sento e chi mi vede non mi sente)
“Manco l'ho mai sentito nominare, Silvio D'Arzo.”
Meglio, così è nuovo e ne vale la pena, informati su D'Arzo
Possibile che mi  perda il chiccone, pur eludendo l’incontro su Skype?
Mi accatto il libro. 
Resta a sedimentare tanto tempo.  
Non leggo mai dopo aver avuto le inzolfate, temo il condizionamento.
Ora ho letto Casa d’altri e altri racconti
Ho pensato boh. 
Allora mi sono informata, qui
E ancora su Anobii, un fiorire di stelle e laudi somme.

Mi chiedo perché a me non ha detto proprio niente,  anzi, meglio ancora  mi ha detto cose che esulano dal racconto stesso e tracimano nelle furbate editoriali, nelle pedanterie filologiche, nelle fortune che talora qualcuno gode perché si crea un’aurea che etc etc.  

Devo fare altre  premesse (ellosò, due palle). 
Non ho mai avuto  grande passione per il racconto breve. 
Il respiro corto  non mi dà il tempo di affezionarmi alla storia, e se le  situazioni narrate sono epifanie dell’ordinario,  in due secondi primi il racconto è già bello che rimosso. 
Devono squillare trombe campanelli e sonaglini, affinchè  possa imprimersi nelle pieghe della mia mente (e tra i peli del cuore).

Appena  ho cominciato a leggere il primo racconto, Casa d’altri, già se n’è sceso il core nelle cazette: la prima immagine delle facce sul saccone attorno al morto, illuminate dal moccolo (il maestro delle candele):  polveroso, un sapore crepuscolare che manco  Gozzano trasferito sui monti.
(mò mi è venuto in mente un altro prete di confino/e, il nipote de Il Messia di Ennio Flaiano, che caratura!) 
Vabbuò, è chiaro,  il problema è mio, l’intimismo non  è la cifra che apprezzo di più nella letteratura, e manco il sussurro, il silenzio, l’indefinito.
(ma anche no) 
Continuo la lettura:  mi  imbatto in una frase  di una certa suggestione, seppur il core persevera  nel rotolare oltre le ginocchia:
«L'ombra proprio non era ancor scesa: campanacci di pecore e capre si sentivano a tratti qua e là un po' prima della prata dei pascoli. Proprio l'ora, capite, che la tristezza di vivere sembra venir su assieme al buio e non sapete a chi darne la colpa: brutt'ora.»
Quanto detesto il dare del voi all’ipotetico ascoltatore (ai lettori, al pubblico). Non mi piace. 
Ma anche questo  è un problema mio.  
Poi mi soffermo su quest'altra frase:  
Sì, diciott’anni, è evidente. Senza dubbio la più giovane cosa del mondo. O anche la più vecchia, chissà”.
La rileggo.  
Senza dubbio o chissà? (non si escludono a vicenda? Confuso alquanto, il prete)
Concludo la lettura del primo racconto. 
Centrale è il  tema del sentirsi estraneo alla propria esistenza:  essere  ospite temporaneo di una vita che spesso si  perpetua in un’immobile routine. 
E’ una vecchia lavandaia,  giunta sulla montagna,  selvatica come la sua capra, a porre al vecchio parroco impinguito dall’accidia nutrita  dai soliti rituali, La domanda.
E dopo, non resta al prete, che in gioventù si era persino guadagnato il soprannome di Doctor Ironicus, che un grande vuoto come se ormai non potesse capitargli “ più niente. Niente fino alla fine dei secoli.
E’ un racconto carico di tristezza,  e di  algida e scarna poesia, che per un motivo che non so spiegare mi ha suggerito l’immagine del movimento oscillatorio  del pendolo. 
Non posso negare un certo fascino “discreto”, sottile, un'inquietudine velata.

Montale  ha definito Casa d’altri “un racconto perfetto”. 
Però vorrei tanto che mi si declinassero le caratteristiche della perfezione nel racconto. 
(e le caratteristiche della perfezione in generale)
Un’amica mi dirà poi che la perfezione è nella perfetta aderenza tra lo spazio, il luogo del racconto e ciò che si dice. 
(Non mi convince, che lo dico affà)

Continuo a leggere gli altri racconti. 
Prefazione a “Nostro lunedì”  lo leggo  una parola sì e due no, mezzo rigo a sinistra e mezzo a destra: i racconti autoreferenziali di scrittori su scrittori e intorno a scrittori manco sono pane per i miei denti (non mi ammalerò mai di Bolanite)

Procedo con Alla giornata
Un déjà vu. 
Lo stesso incipit di Casa d’altri.  
Interi segmenti di testo  che si ripetono identici :
 “Mai assistito  a una lezione di anatomia? Bene: la stessa cosa per noi, in un certo senso. Quasi tutto il solaio era al buio, e tutto quello che si poteva vedere erano le nostre dodici facce *, attaccate l’una all’altra come davanti a un presepio, e quel saccone di foglie, e un pezzo di muro annerito dal fumo e un pezzo di trave annerito anche più.” 
L’aria intorno era viola: e viola i sentieri e le erbe dei pascoli e i calanchi e le creste dei monti: e nel primo buio, lontano, vedemmo scendere al borgo quattro o cinque lanterne.”
E ancora la stessa frase dei diciotto anni sulla quale mi sono impigliata nel primo racconto. 
Ritorna. 
Le ripetizioni non sono limitate a questi due racconti,  che   potrei giustificare immaginando  una gestazione “germinata”. 
Ve ne sono altre. 
Perché? 
Non voglio pensare che  Ezio Comparoni, alias Silvio S'Arzo,  abbia “selezionato” un repertorio di parole, di frasi, di “segmenti” ritenuti evidentemente così “pregnanti” da infilarsi come il petrosino in ogni minestra. 
[non dovrebbero mancare le parole ad uno scrittore. Come si possono “congelare” gli incipit, le conclusioni, i segmenti descrittivi e infilarli dove meglio ci appizzano?]

Voglio credere che gli altri racconti  che sono stati inseriti nel volumetto non erano altro che bozzetti, prove, esercitazioni, e allora mi chiedo perché cavolo non abbiano  pagato qualcuno, quelli dell’Einaudi, per fare  una fetente di introduzione critica, tale che lo sprovveduto lettore  (moi, moi!!) di fronte a queste evidentissime “stranezze”, non resti come un mammalucco? 
(sempre l’amica di cui sopra mi dice che non si deve entrare nel laboratorio dello scrittore, ma io non ci sono entrata, mi hanno spinto e poi hanno chiuso la porta e spento la luce)
E ancora, perché mai  non sono stati selezionati altri racconti, piuttosto che questi abbozzi,  da affiancare al montaliano “racconto perfetto”?
(Non voglio pensare che quest’è, la produzione di Silvio D’Arzo.)

Il quinto e l’ultimo racconto della raccolta hanno la medesima frase a conclusione: 
Tutto questo è piuttosto ridicolo, no?” 
Cade a fagiolo. 
Anche perché  mi sto sentendo come il tipo che guarda il dito piuttosto che la luna.  
Però mi dico che dipende pur sempre dal dito che indica. 
E poi oggi c’è il sole.



*in Casa d'altri le facce sono sei

lunedì 8 settembre 2014

Oltre il confine

Oltre il confine è il secondo romanzo di una trilogia, la trilogia della frontiera.
Alcuni anni fa lessi il primo. 
Fu un giovane amico a suggerirmi Cavalli selvaggi; il protagonista John Grady lascia la sua casa per cercare il suo posto nel mondo. 
E’ un viaggio di formazione, a suo modo una recherche. 
(il mio giovane amico e il suo posto nel mondo, pensai)

La recherche è anche il perno del secondo romanzo della trilogia: anche in questo, il protagonista è un ragazzo, Billy. 
Billy vive coi genitori e il fratello Boyd in un ranch in New Mexico. 
Avvista una lupa che sbrana di armenti. 
Negli Stati Uniti non vi sono più lupi, sono stati uccisi tutti. 
Così dicono. 
Ma gli animali con conoscono i confini tracciati dagli uomini, e la lupa oltrepassa il confine. 

Il padre di Billy gli insegna a piazzare le trappole. 
Billy li vede di notte, i lupi che danzano. 
Il vecchio glielo aveva detto : “il lupo è un essere di ordine superiore, che sa cose che gli uomini non sanno: che non c'è ordine nel mondo salvo quello imposto dalla morte.

Il viaggio di Billy comincia con ricerca della lupa; riesce infine a catturarla: è ferita, è prigioniera, ma Billy non può ucciderla. 
Decide di partire e di riportarla oltre il confine, in Messico. 
Lei e gli altri della sua specie, lupi e fantasmi di lupi che correvano nel candore del mondo delle cime, un mondo perfetto per loro, come se avessero partecipato alla sua 
progettazione.”
Ma il viaggio in Messico, e poi il ritorno a casa, e di nuovo oltre il confine, con il fratello a cercare di recuperare i cavalli rubati alla sua famiglia, e poi ancora negli Stati Uniti, e poi ancora oltre il confine e ancora e ancora, non fa altro che insegnargli quello che la lupa sapeva già: non c’è ordine nel mondo salvo quello imposto dalla morte.

Il libro inizia con una lupa selvatica e aggressiva e fiera e termina con un cane cencioso “ un cane vecchio, col muso grigio e orribilmente storpio nelle zampe posteriori; anche la testa era storta rispetto al resto del corpo e il cane si muoveva in maniera grottesca. Una bestia artritica e sbilenca che si trascinava lateralmente e annusava il pavimento per sentire l'odore dell'uomo”. 
Billy era la lupa, Billy è il cane. 
Però nulla gli impedisce di cacciarlo via con le pietre. 
Salvo poi piangere, per il cane, per se stesso.
Il cieco gli “Disse che era un errore aspettarsi troppa giustizia in questo mondo. Disse che l'idea che il male sia raramente ricompensato era ampiamente esagerata, perché se esso non ritornasse utile gli uomini lo eviterebbero; e allora come sarebbe possibile considerare virtuoso chi lo ripudia?” 
Non è un virtuoso, Billy. 
Non ha più nulla, ma il suo tempo non è finito. 
Perché questo mondo che ci pare una cosa fatta di pietra, vegetazione e sangue non è affatto una cosa ma è semplicemente una storia. E tutto ciò che esso contiene è una storia e ciascuna storia è la somma di tutte le storie minori, eppure queste sono la medesima storia e contengono in esse tutto il resto. Quindi tutto è necessario. Ogni minimo particolare. 
È questa in fondo la lezione. Non si può fare a meno di nulla. Nulla può venire disprezzato. Perché, vedi, non sappiamo dove stanno i fili. I collegamenti. Il modo in cui è fatto il mondo. Non abbiamo modo di sapere quali sono le cose di cui si può fare a meno. Ciò che può venire omesso. Non abbiamo modo di sapere che cosa può stare in piedi e che cosa può cadere. E quei fili che ci sono ignoti fanno naturalmente parte anch'essi della storia e la storia non ha dimora né luogo d'essere se non nel racconto, è lì che vive e dimora e quindi non possiamo mai aver finito di raccontare. 
Non c'è mai fine al raccontare.

E proprio per questo motivo - non c'è mai fine al raccontare - devo leggere il terzo libro della trilogia, e anche - o forse soprattutto - perchè questo romanzo, rispetto al primo, mi ha lasciato uno strano strascico. 
Nonostante la brutalità, il sangue le pietre le ossa il vento del deserto e i fuochi le rovine, ovvero nonostante la “terrestrità” delle situazioni, c’è un qualcosa di “mistico”: i vecchi che trattengono il giovane con i loro discorsi, il vecchio eremita dei gatti nella chiesa, il vecchio cieco, il vecchio “custode” dei segreti della sua città, hanno il marchio del profeta, o dell’oracolo .
E poi ci sono i sogni, e le epifanie: 
A metà torrente si fermò di nuovo, si sfilò l'arco di spalla e lo lasciò cadere nel fiume. L'arco prese ad avvitarsi su se stesso tra i flutti e poi galleggiando andò a finire nella pozza più a valle. Una mezza luna di legno chiaro, che andava alla deriva, perduta nel sole sull'acqua. Ricordo di un arciere annegato, o di un musicista, o di un appiccatore di fuoco.”

Non posso negarne la potenza immaginifica, però è anche vero che rispetto al primo mi è sembrato meno concluso. Una cerniera, non so come dire. 
O un libro di confine: Billy non viaggia e basta. 
Va avanti e indietro, ritorna su sentieri e in luoghi già percorsi: è un moto circolare il suo. 

Dall’epica del viaggio che è l’ossatura di Cavalli selvaggi a qualcosa che non riesco a delineare, oltre alla sacra verità dei lupi. 
So che nella città della pianura Billy e John saranno insieme. 
Voglio sapere che direzione prenderanno le loro vite.