giovedì 22 maggio 2014

L'isola della sacerdotessa dell'amore

Se avessero messo sul retro della copertina la foto dell’autore, sarebbe stato  ancora più evidente  a quale tipo di libro e di scrittore si va incontro.
Moore, l’ho definito anche altre volte così, è un magnifico autore da cazzeggio. 
[Mi chiedo  perché in Italia le sue pubblicazioni arrivino con grande  ritardo: L’isola della sacerdotessa dell’amore, pur essendo uno dei primi romanzi di Moore, edito nel lontanissimo 1997, ha visto la luce in Italia solo l’anno scorso. 
Ho una mia teoria, ma le strategie delle case editrici sono così imprevedibili, pensando a tutta la carta stampata che sta in giro….]

Moore le spara grosse, proprio grosse assai. 

Moore - L'isola della sacerdotessa dell'amore
Il protagonista del libro, Mister Tucker Case,  “uno sfigato intrappolato nel corpo di un figo”,    porta una peripatetica a fare un giretto  sul jet della Mary Jane Cosmetici per cui lavora come pilota – ehi bel giovinotto, fammi fare un giro sulla tua macchina, andiamo a vedere le stelle –
Fare sesso  mentre si guida un aereo  stando  ubriachi  non è cosa assai prudente, ma Mister Tucker non riesce a sottrarsi all'invito della signurina, ritrovandosi poi con il jet sfracellato e il pisello sguarrato.
Diventato un paria,  senza patente e senza attributo, viene assoldato da un docteur che gestisce un ospedale in un’isola sperduta nel Pacifico. 
Per arrivarci  supera indenne una serie di sciagure, in compagnia di Kimi (un personaggio checazzissimo) e del suo pipistrello parlante con gli occhiali da sole,  Roberto.  
Sull’isola, abitata dalla tribù dello Squalo,  le avventure/sciagure non finiscono.
Quasi come in una spy story, riesce a scoprire i loschi affari del dottore lo stregone  e di sua moglie la sacerdotessa dell’amore, e con l’aiuto provvidenziale del fantasma di un aviatore della Seconda Guerra e del guano del pipistrello Roberto manda a puttane il teatrino della coppia e i loro brutti traffici. 
Eppure  non tutto nel libro è bufala:  mica è invenzione l’esistenza di un certo turpe commercio,  e considerata pure la non celata accusa di  onnipervasività della “cultura a stelle e strisce”, seppur combinata in sincretismi assai particolari,  si potrebbe ritenere  L’isola della sacerdotessa dell’amore quasi un libro di denuncia. 
(quasi)
Addirittura il libro mi ha permesso di scoprire cosa sono i  culti del cargo, di cui non avevo mai sentito parlare. 
(cose da pazzi overamente)
E ho pensato, in ordine:
che l’influenza di Vonnegut su Moore ( meglio la passione di Moore per Vonnegut, il debito nei suoi confronti) è più consistente di quanto possa sembrare (più di una volta si è acceso un led di collegamento con Ghiaccio-nove, e le istanze e i bisogni delle religioni)   
che l’interesse (o la  paura) per il sovrannaturale deve avergli  fatto fare da piccolo taaaaanti brutti brutti sogni (la parodia parossistica è una forma di esorcismo) 
che comunque Moore  funziona meglio quando spara senza voler colpire necessariamente un bersaglio.

E’ un goliardico, non un satirico. 

Ma  è pur sempre un toccasana per l’umore.

lunedì 5 maggio 2014

Arriverà la primavera.

John Fante - Aspetta primavera, Bandini
La speranza di un cambiamento, di una “rinascita”,  è sempre l’ultima a morire. 
Soprattutto quella dei migranti. 
Non si lascia la propria terra se non c’è la speranza di trovarne una migliore.
Svevo Bandini lo aveva fatto. 
Dall’Abruzzo fino in America. 
Lui, ad esempio, era un italiano puro, di una stirpe contadina che si perdeva nella notte dei tempi. Tuttavia, ora che aveva ottenuto la naturalizzazione, non si considerava più italiano. No, era un americano; talvolta si faceva vincere dal sentimento, e preferiva urlare orgogliosamente le sue origini; ma per il resto era americano, e quando Maria gli parlava di quel che facevano “le donne americane” o dei vestiti che indossavano, quando accennava alle abitudini di una vicina, “l’americana in fondo alla strada”, andava su tutte le furie. Perché Svevo era molto sensibile alle differenze di classe e di razza, alle sofferenze che sottintendevano e vi si opponeva con tutte le forze.

I suoi figli si sentivano americani, soprattutto Arturo, anche se doveva frequentare una terribile scuola cattolica gestita da suore pietose (o pietose suore). 
Però, in fondo,  i  Bandini non  erano americani.
Non perché italiani o figli di italiani.  
Altri, come Rosa, figlia di un minatore italiano,  stavano alcuni gradini più in alto rispetto ai Bandini, con i loro regali di Natale sotto l’abete e  guanti alle mani e caldi cappotti sulle spalle. 

Poveretta. Sua madre, una poveretta. Quelle parole lo ridussero a una disperazione tale da riempirgli gli occhi di lacrime. 
Ovunque, la stessa storia, sempre sua madre, la poveretta, sempre povertà e povertà, sempre quella parola, dentro di lui e intorno a lui. E all’improvviso, in quell’aula semibuia, s’abbandonò al pianto, singhiozzando per espellere la povertà, piangendo e ansimando, non per quell’espressione, non per lei, per sua madre, ma per Svevo Bandini, per suo padre, per l’aspetto del padre, per le mani nodose di suo padre, per gli attrezzi da muratore di suo padre, per i muri costruiti da suo padre, per i gradini, i cornicioni, i cenerai e le cattedrali, tutti bellissimi.

E’ sempre la povertà che fa la differenza, non l’etnia, o  la razza, o la stirpe, o la provenienza o qualunque altro accidenti. 


Il racconto, pur essendo in terza persona, si muove prevalentemente su due punti di vista, quello del padre, Svevo, e quello del figlio primogenito, Arturo. 
Entrambi aspettano la primavera, la stagione bella, quella in cui i muratori trovano più facilmente lavoro, quella in cui i ragazzini che sognano di diventare campioni di baseball possono lanciarsi sul campo e afferrare una palla. 

Ah, la primavera! Ah, lo schiocco secco della mazza da baseball, il prurito della pallina a contatto con le dita. Inverno, tempo di Natale, stagione dei bambini ricchi: loro avevano stivaletti alti, sciarpe colorate e guanti foderati di pelliccia. Ma a lui non importava granché. Il suo momento era la primavera. Niente stivaletti alti, niente sciarpe eleganti sul campo da gioco! Non si faceva una battuta vincente solo perché s’indossava una cravatta di lusso.”

La posticipazione della felicità. 

Aspettare, aspettare, e nell’attesa rodersi il fegato e campare di rabbia e frustrazione, fino a lasciarsi comprare da un'arrapata vedova americana, fino a rubare l’unico gioiello di famiglia. 
Però, tra un senso di colpa smisurato e l’autocommiserazione  c’è sempre una scusante, un' autogiustificazione, un autoassolvimento,   altrimenti come si potrebbe aspettare la primavera senza farsi divorare dal presente?
(si potrebbe quasi impazzire, eh, Maria, altrimenti) 


Non è il primo libro che leggo sulla  condizione degli immigrati italiani in Ammerica che fanno riferimento ad un’ esperienza personale –   pure Fante ha gustato l’amaro sapore della povertà . 
Mi sovviene ora il purtroppo poco noto  Cristo tra i muratori  di Pietro Di Donato,   dal taglio più “politico”. 
Ma questo romanzo di Fante mi è piaciuto davvero  molto. 
E’ in un certo senso  ”intimista”.
Al realismo dello sfondo su cui si muovono i personaggi,   si accompagna una notevole introspezione caratteriale. 
Molto interessante lo svelamento delle pulsioni interiori che guidano i personaggi nelle dinamiche relazionali: il rapporto tra i coniugi Bandini, tra genitori e figli, tra i tre fratelli, tra i compagni di classe di Arturo, tra Svevo e la signora Hildegarde. 
Rabbia  soprattutto,  ma anche slanci di vendetta e di ripicca e  polle di tenerezza.
Soprattutto, una  grande contraddizione tra il dovere, il potere e il volere fare.
(come è quasi sempre)

Arturo, che è il più grande dei fratelli, ha poi un dolore in più: oltre alla povertà e al senso di colpa per tutti i peccati mortali e veniali che commette, ama Rosa, non ricambiato. 
Il suo  amore ipotetico si modella su quello che ha a portata di occhio: sul rapporto tra suo padre e sua madre. 

John Fante, che dice  del suo libro " Ho paura, non sopporto l’idea di vedermi sotto la luce della mia prima opera. Sono certo che non la rileggerò più." lo dedica ai genitori: 

Questo libro é dedicato a mia madre, Mary Fante, con amore devozione; e a mio padre, Nick Fante, con amore e ammirazione”.

Ho pensato molto a questa dedica, dopo. 
Sono gli stessi sentimenti verso i genitori  che scuotono l’animo del personaggio  Arturo Bandini.
Ai suoi occhi, la madre, sottomessa e fedele e fragile, merita amore e devozione, e il padre, autoritario e intraprendente, merita amore e ammirazione.  

Sei un uomo in gamba, papà. Stai uccidendo mamma, ma sei magnifico. Tutti e due
lo siamo. Perché un giorno farò anch’io così, e lei si chiamerà Rosa Pinelli.”

Di fronte alle delusioni, ancora una volta, non c’è che da aspettare la primavera. 

A qualcuno potrebbe bastare  la fede.
La signora Bandini, vi ricorre per far fronte al dolore ordinario.  
Anche lei aveva la sua via di fuga, un varco verso l’appagamento: il rosario. Quella fila di grani bianchi, quei minuscoli anelli consunti in una dozzina di punti e tenuti insieme solo grazie a cordoncini di filo bianco, che a loro volta si spezzavano regolarmente, rappresentavano, grano dopo grano, la sua placida fuga dal mondo. Ave Maria, piena di grazia, il Signore é con te. E Maria cominciava a salire. Grano dopo grano, la vita e il mondo sparivano. Ave Maria, Ave Maria. Sogni senza sonno la inghiottivano. Passioni disincarnate la cullavano. Amore senza morte, cantava la melodia della fede. Era lontana; era libera; non era più Maria, americana o italiana, povera o ricca, con o senza lavatrici o aspirapolvere; ormai era giunta nella terra dove si possiede tutto. Ave Maria, Ave Maria, senza mai smettere, migliaia, milioni di volte, preghiera dopo preghiera, il sonno del corpo, la fuga della mente, la morte della memoria, l’annientamento del dolore, la fantasticheria, profonda e silenziosa, della fede. Ave Maria e Ave Maria. Ecco la sua ragion d’essere.”


[Nell’obitorio dell’ospedale, la mia amica era prosciugata e tesa come una corda di violino.
Io che sono atea non avevo che abbracci da dirle, nessuna parola per avvolgerla. 
Però, quando l’hanno trascinata nella cappellina e hanno intonato un mantra di preghiere, tono alto e tono basso, sussurro e picco,  anche io, da fuori, ho  avvertito un intorpidimento dei sensi, un blackout della ragione, una culla in cui adagiare la tensione. 
Una sospensione del tempo. ]

Ma il tempo non si ferma. 

Presto arriverà la primavera” disse.
“Certo!”
In quello stesso istante, qualcosa di freddo e minuscolo gli sfiorò il dorso della mano.
Lo guardò sciogliersi, un piccolo fiocco di neve, a forma di stella..."

Arriverà la primavera. Non solo per i Bandini. 

venerdì 2 maggio 2014

Abitare il vento

Nell’impeto accumulatorio, comprai tra i tanti altri usati sul Libraccio, usato come nuovo, anche Abitare il vento di Sebastiano Vassalli.
[Vana è sempre la mia speranza di trovare traccia:  ogni volta che compro un libro usato non posso fare a meno di chiedermi chi l’abbia posseduto, perché lo abbia venduto, e mi piacerebbe trovare un segno, una presenza del passaggio, una sfoglia  di carta velina o un petalo secco, cose così, oh yes.]
Lo tenevo sotto il  pilone dei leggituri, pensando a qualcosa di poetico assai, associando il Vassalli alla uallarite intellettuale.
E neanche  so o  neanche mi ricordo il motivo del  pre-giudizio,  dato che de La Chimera, letto quando ancora non sapevo leggere,  ho  ancora un bellissimo ricordo.
Vabbuò, comunque sto libricino  è passato dal pilone alle mani.
E son rimasta sorpresa.

Protagonista è Antonio Cristiano Rigotti detto Cris,  cavaliere errante amico di tutte e di tante, appassionato di nigmistica, di Salvatore Quasimodo e delle parole in rima (ho fatto il liceo classico prima del sessantotto io – dice lui).

Ha 28 anni, l’errante, gli ultimi passati in carcere  per associazione sovversiva a mano armata, e i prossimi, se ci fossero stati, li avrebbe passati in carcere ugualmente, per sequestro di persona – poveraccio di un Diarrea - a scopo di estorsione per conto di  un’ organizzazione terroristica astratta  e fumosa quanto la sua ideologia politica. 
Astratta e fumosa forse non sono termini giusti, per definire l’ideologia  dell’errante.
Il credo, la sottomissione e la fiducia massima  sono  verso Il Grande Proletario, che
“Nulla disdegna pur di adempire il suo terreno mandato. Un istante: e il Grande Proletario è diritto, eretto, desnudato, sciabolante, eccitante, entrante.
Un’ideologia del cazzo nel senso letterale del termine.  

Ma  anche il Grande Proletario tradisce, e si riduce a un piccolo borghese, traditore  fedigrafo, come se non bastasse  tutto il resto, i carebbinieri  alle calcagna e la terra bruciata attorno.

Questa di abitare il vento ragazzi è l’ispirazione fondamentale-segreta della mia erranza da esteta e tutto il resto son balle, bischero universale e tutto, l’ombra di un ombra di un rutto. E caldamente vorrei dire anzi cantare le lodi dell’erranza, adesso. Perché ragazzi l’erranza è una romanza oppure una pietanza, a scelta. E’ una cosa aguzza e svelta di cuore. E’ un amore ridotto all’osso. E’ un Grande Proletario lanciato verso i presenti-futuri come una sonda, un vettore. E’ un vivere via, dal tempo o dall’ideologia, a scelta.  Così io son diventato errante nel mio dopogalera in fiore il giorno che mi sono detto Cris, ricordati che non c’è gnente al mondo di più rotondo del Grande Proletario, e che il bìschero universale farà la storia ma è brutto oppure la fa male, chiaro? Il giorno che ho capito tutto. “

Povero Cris.
Poveraccia e disgraziata una generazione di ribelli, quella  di cui il cavaliere errante è emblema, quella che ha segnato gli anni di piombo in Italia.
Il romanzo è del 1978.
E’ impressionante la capacità di Vassalli di demitizzare e demistificare comportamenti e meccanismi negli  stessi anni in cui ancora  esercitavano  delle attrattive,  attraverso la creazione di un personaggio detestabile  ma nello stesso tempo   commovente nella sua ingenua baldanzosità, nel suo vuoto pneumatico, nel suo vitalismo prigioniero, utilizzando un linguaggio lontano mille miglia dalla mitopoiesi  degli opuscoli e dei volantini.
Nella nota all’edizione del 2008, Vassalli dice, a proposito del suo personaggio:
La sua follia, che non appartiene soltanto a lui ma che in Italia fu il “male di vivere” della sua generazione, lo porta a (…) ribellarsi contro qualcosa che non si capisce bene cosa sia: forse la società dei consumi, o forse il destino. Non c’è, per i giovani italiani degli anni Settanta, l’esperienza della guerra in Vietnam come per i giovani americani; non c’è il Muro di Berlino che incombe su di loro, come sui coetanei tedeschi. La loro ribellione è una ribellione metafisica, contro il nulla, e però può spingerli ad atti concreti di terrorismo come assaltare un supermercato o sequestrare una persona. Può spingerli a sparare e ad uccidere. (…)
Dietro le ideologie farneticanti degli anni Settanta c’era, in profondità, un’estetica barocca di distruzione e di morte (…)”.

Non so fino a che punto sia esatta questa chiave di lettura, ma certo è che
il terrorismo, di qualunque colore e forma, fu ed è  estetica di distruzione e morte.


Cosa cova sotto le ceneri del presente?

giovedì 1 maggio 2014

La febbre del ragno rosso

La febbre del ragno rosso è una  delle tante epidemie destinate, in un tempo "astratto",  a falcidiare l’umanità.
E’ il capitano Mission a “scoprirla”.
Il capitano Mission non è un’invenzione di Burroughs, ma una  figura leggendaria che fondò una comunità anarchica, Libertalia,  in Madagascar, dove erano vietate la violenza, la tortura, e dove si cercava di vivere in armonia con la natura.
Il Madagascar presta ottimamente il fianco alla reinterpretazione della leggenda da parte di Burroughs: è la terra dei lemuri, i primati più vecchi, ma molto più vecchi dell’homo sapiens.

Il loro modo di sentire è fondamentalmente diverso dal nostro, non orientato verso il tempo, la sequenza, la casualità.
Non a caso Mission ha un Lemure Fantasma come daimon.
A Libertalia le cose non vanno per il verso giusto, e Burrough immagina una fine diversa per il capitano Mission, rispetto alla leggenda che lo vuole morto in un naufragio.
Gli fa compiere, prima di morire,  nel ventre di una caverna sull’isola,  una sorta di viaggio iniziatico grazie all’assunzione di un potente allucinogeno, cristalli di indri.
(del resto l’autore era grande esperto di trip)

Il viaggio, annullando tempo e spazio,  consente l’ingresso nel Museo delle Specie Perdute e nel giardino  delle Occasioni Perdute, dove sono contenuti tutti  gli esseri estinti, e i morbi,  le sette piaghe e i Peli, e le menzogne salvifiche del cristianesimo.
Il viaggio nel Museo rivela  la frattura tra un’armonia ancestrale perduta e il mondo che l’ homo sapiens, con il suo pollice opponibile, ha modellato, quella specie di  "animali" che "si è avviata inesorabilmente verso il linguaggio, il tempo, l’uso di strumenti, la guerra, lo sfruttamento e la schiavitù."

L’ingresso è libero per chiunque riesca a entrare. La moneta da pagare è la capacità di sopportare il dolore e la tristezza dello spettacolo dell’estinzione, …




In questo racconto allucinato e allucinante Burroughs adotta la modalità di pensiero “lemure”: saltano continuamente le ragioni della logica, della casualità, e non è un caso – forse – che  vi sia un solo  riferimento esplicito alla filosofia, a quella di Korzybski,  per il quale uno dei  limiti degli esseri umani è legato  alla struttura del linguaggio.
E' un viaggio alla scoperta della fine del tempo, alla scoperta della dissoluzione.

Tuttavia.
L’impressione più marcata, al di là di tutto, è che La febbre del ragno rosso sia un racconto lisergico.
In senso proprio, non  metaforico.
Burroughs quando lo scrisse  sicuramente era strafatto.  
LSD e anfetamina, solo così si spiega l’incubo dei peli  (altro che indri).