venerdì 28 febbraio 2014

Scritti corsari.

Ho commesso di sicuro un errore, a leggere Scritti corsari come se fosse un romanzo.
Avrei dovuto spiluccare qualche pagina ogni tanto -  gli scritti sono composti prevalentemente da articoli pubblicati su giornali e riviste  tra il 1973 e il 1975, qualcuno è inedito  -   per ricordare quanta preveggenza aveva già avuto nel delineare il  mostro culturale di cui siamo prigionieri , l’edonismo permissivista, attraverso il quale il capitalismo più spinto recluta masse di schiavi/consumatori, attraverso cui modella comportamenti sociali sempre più omologati e omologanti, attraverso cui cancella la creatività e la diversità .
Ognuno in Italia sente l’ansia, degradante, di essere uguale agli altri nel consumare, nell’essere felice, nell’essere libero: perché questo è l’ordine che egli ha inconsciamente ricevuto, e a cui “deve” obbedire, a patto di sentirsi diverso. Mai la diversità è stata una colpa così spaventosa come in questo periodo di tolleranza.

Il Pasolini critico verso il consumismo lo conoscevo  e lo apprezzavo già.
[E le tirate contro  la televisione! Chissà cosa penserebbe ora dell’internet, della RETE,  che pretende di  costituirsi come  base rappresentativa del  popolo intero  - basta fare clic/mipiace e ha deciso la base. E la mia nonna, se fosse ancora viva, ma anche i miei genitori, di quelli che si fa, li si butta o clicco io per loro? E se io non voglio stare nella rete?
E le tirate contro  la Chiesa! Chissà che direbbe del papa argentino, che  a me pare la scopa nuova, ma sempre scopa, mica martello]   

Un innamoramento, la lettura dei primi articoli.
Però,  quando un’idea- concetto-illuminazione viene ripetuta centomila volte, alla lunga si dice pure  uffàààà - anche perché va bene l’analisi, e poi? Cosa si può fare? 
Il mondo contadino prenazionale e preindustriale  che  Pasolini rimpiangeva non può esistere più, con tutta la buona volontà è proprio impossibile che  possa ritornare.
Un piccolo elemento di disturbo nella lettura consecutiva degli Scritti corsari è l’impianto polemico di molti articoli scritti in risposta a critiche o asserzioni di altri intellettuali (di cui, eccezione fatta per Eco, Calvino, Moravia, non ho mai sentito parlare). 
Mi sarebbe piaciuto poter leggere interamente ciò contro cui reagisce il Pasolini. 
Così invece è un dialogo senza controcanto, da cui tuttavia si evince una “severità” di giudizio, una sorta di intransigenza oserei dire ossessiva . 

Quello che però mi ha maggiormente toccato, è stato scoprire, oltre al “Io so. Ma non ho le prove” da cui ha preso spunto Saviano per il suo “Io so e ho le prove”,   che Pasolini era antiabortista. 
Dall’innamoramento sono passata al disincanto. 
Vero che la sua posizione è legata ad una più complessa e articolata riflessione sulla sessualità in generale, sul rapporto tra sessualità e potere,  sul  finto permissivismo che mentre da un lato  fa in modo che   “l’amore eterosessuale –talmente consentito da diventare coatto – è divenuto una sorta di “erotomania sociale” (e basta guardare le undicenni che posano su feisbuc per rendersi conto dell’orrore) , dall’altro  si irrigidisce verso le “minoranze sessuali”. (basta pensare a  Putin e alla Russia, insomma). 

Però è anche vero, ritornando alla questione dell’aborto, che la riflessione di Pasolini  si concretizza in queste parole: 

L’aborto è una colpa”  (ripetuto più volte)

L’aborto legalizzato è infatti – su questo non c’è dubbio – una enorme comodità per la maggioranza. Soprattutto perché renderebbe   più facile il coito – l’accoppiamento eterosessuale – a cui non ci sarebbero più praticamente ostacoli.

Ecco, qui davvero sono io a  scandalizzarmi. 
Chiaro, un miliardo di volte meglio prevenire, come lo stesso Pasolini precisa, e ci mancherebbe, l’informazione sulla contraccezione è prioritaria e fondamentale,  come la considerazione delle pratiche acoitali, tuttavia.
Nel Pasolini pensiero è completamente assente  - come nota la sua amica Laura Betti – la donna.
Assente il corpo della donna, assente il dramma della donna.
Assente la riflessione sui motivi per cui le donne ricorrono  all’aborto. 
Perché,  nonostante tutti i blateramenti, l’aborto è una cosa che riguarda le donne,  contenitori vivi e pulsanti, non caccavelle. 

La mia opinione, nel caso specifico, è che considero l’”aborto” una colpa. Ma non moralmente, questo non può essere nemmeno discusso. Moralmente non condanno nessuna donna che ricorra all’aborto, e nessun uomo che sia d’accordo su questo. Ne faccio e ne ho fatto una questione non morale ma giuridica.

E dunque, mi chiedo?

Davvero  abortire in ospedale, sotto controllo medico, è solo un modo per godere di una sessualità libera? 
L’aborto è sempre un momento difficile, difficilissimo per le donne. (sono quasi sempre sole, altro che coppia, altro che sticazzi)
E’ una scelta estrema e mai presa alla leggera, per nessuna è come eliminare un ascesso dentale o ripulire un’unghia incarnita. 
L’aborto non è un’invenzione della modernità. 
Le mammane coi ferri da calza e cucchiai  sono figure tipiche della società contadina preindustriale.
(quella di cui aveva tanta nostalgia)
E le donne di aborto morivano. 
Che continuino a morire di cucchiaio, allora. 
No no no, non mi convincono affatto le motivazioni di Pasolini, eh.
E meno male che dà ragione a Moravia, il quale “ha detto che il fondo dei miei argomenti è paolino: cioè in me, come in San Paolo, c’è l’inconscia pretesa della castità da parte della donna.
Sarebbe stato meglio per me non fare questa scoperta. 
Meglio forse che mi concentri su un’altra piccola scoperta, quella dello scrittore Giovanni Comisso e del suo libro “I due compagni”, di cui Pasolini scrive un magnifico invito alla lettura.



giovedì 20 febbraio 2014

Barbari(e)

Non si può fare a meno di  associare Aspettando i barbari al libro di Buzzati, Il deserto dei tartari
Si richiamano i paesaggi, la fortezza, il ruolo dei protagonisti. 
Entrambi i libri sono ambientati in un luogo  di confine:  una cittadella fortificata all’estremo margine dell’Impero, anche all’estremo margine dell’ecumene, che tra la città e le montagne dove vivono i barbari c’è un deserto,  e  la fortezza Bastiani, simile avamposto. 
Il magistrato protagonista del libro di Coetzee   e il sottotenente Drogo sono  entrambi tesi ad aspettare qualcosa:  il processo,  il nemico, la giustizia, un senso
… come uno che ha perso la strada tanto tempo fa, ma continua per una via che forse non lo porterà da nessuna parte.
Per  scovare altre similitudini dovrei rileggere Buzzati, i cui echi giungono dal pleistocene. 

Tuttavia. 
Nel corso della lettura l’asse delle somiglianze si è alquanto spostato. 
Un romanzo politico, più che  esistenzialista, questo di Cootzee, a partire dal legame  tra la donna barbara e il magistrato.
Non un vero   svelamento dell’intimità del protagonista,  quanto piuttosto un  “episodio” che ha  un  traslato  “antropologico”:

E poi, se devo dire la verità, il piacere che ho trovato in lei, quello di cui ancora rimane traccia sensibile nel palmo della mia mano, non arriva in profondità. Il cuore non ha un sussulto, il sangue non mi pulsa con più violenza nelle vene, se la sua mano mi sfiora. Non sto con lei per il rapimento dei sensi che mi promette o mi produce, ma per ragioni diverse che continuano a sfuggirmi, come sempre. “ 

Anzi, non riesce neanche a guardarla, a fissare i suoi tratti nella memoria. 
Con  grande fatica, una volta  riesce  a evidenziarne la bruttezza. 
E’ davvero così priva di fisionomia? Con uno sforzo mi concentro su di lei. Vedo una figura con un cappuccio e un pesante cappotto sformato che si regge in piedi, a malapena, curva in avanti, con le gambe storte, appoggiata a dei bastoni. Che brutta, mi dico. La mia bocca articola la parola brutta. Sono sorpreso io stesso, ma non resisto: è brutta, brutta." 

E’ l’atto della lavanda dei piedi,  in cui il più grande si fa servo dei servi, ciò che cerca di compiere con insuccesso il magistrato sulla donna barbara, a cui unge e massaggia i piedi e le gambe martoriate dagli aguzzini.
La lava e la riempie di tenerezze, ma non riesce ad amarla.
(quanta fatica a vedere davvero il diverso da noi, ad entrarci in sintonia, nonostante la pietà, la compassione, la richiesta muta di perdonare l’odio)

Se ne Il Deserto dei tartari perno di ogni cosa  è l’attesa,   in Aspettando i barbari non c’è nulla da attendere. 
E’ tutto qui ed  ora. 
Il magistrato prima che giungesse la Terza Divisione a mettere i puntini sulle i e gli aghi incandescenti negli occhi del nemico, si dilettava  negli scavi archeologici: sotto la sabbia,  da chissà quanto tempo, le vestigia di civiltà passate e sepolte e dimenticate. 
Quanto spreco nel voler difendere i confini dell’Impero!
Chi sono i barbari di cui aver paura, i barbari da combattere a tutti i costi, da respingere sempre più lontano, oltre gli spazi ecumenici? 
Chi sono i barbari? Sono davvero gli uomini che armati di frecce e archi minano le fondamenta della civiltà e dell’Impero che di essa si fa portavoce?
E’ dai barbari che ci si deve difendere? 
O la barbarie è la civiltà stessa, che vive di sospetti, di pregiudizio, di inganno, di ingiustizie, di sopraffazioni?
E lentamente, dalla fortezza Bastiani  sono arrivata ad  un'altra fortezza.
Abu Ghraib.

Fernando Botero


http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=3089






domenica 16 febbraio 2014

Gli ultimi giorni

Eh, cara lei, ma ha saputo poi cosa è accaduto a? 
Noooo, ma davvero? La stessa fine di quell’altro!!
Era scritto nel destino, ci avrei scommesso come su un cavallo, che così sarebbe andata. 
E signora mia, ha visto più l’inquilino del quarto piano? 
Uno nuovo? Ahh,  lo stesso dannato vizio di scotoliare la tovaglia dal balcone, e mannaggia, cambiano i cognomi, ma tant’è,  zuzzuso l’uno e zuzzuso l’altro. 
Tonino, Tonino, quello del civico 34, gioca sempre a biliardo? Marò, che mi andate raccontando, si è scumbinata la compagnia e mò  overamente al biliardo ci stanno sempre e solo i quattro dell’avemaria, quegli studenti scumbinati e sfaccendati! 
E del cognato della sorella  dell’amico del rappresentante di Folletti, che mi dite?
Uhhhhh, è muort! E chi se l’immaginava, nu così bell’omm!

Il Quartiere Latino a Parigi, Le Havre, il condominio dove abito io.
Certamente  i personaggi queneauniani sono  letterariamente più interessanti dei miei vicini di casa, delle persone che mi è capitato in modo insolito e imprevisto di incrociare (ma anche no, la signora M. !) e penso alle pippe mentali dello studente della Sorbona Tuquedenne 

“Certo, nessuna di quelle cose aveva in se stessa la propria ragione di essere, e tutte, immerse nel divenire, erano destinate a perire. Che cos’era la loro realtà? Non dipendeva essa da una cosa diversa da loro stesse? Dov’era allora la loro realtà? Cos’era che costituiva la loro realtà? Era l’Essere? Era l’Uno? Se l’Essere costituiva la realtà delle cose, perché allora quelle cose non erano? Forse perché non è essere ciò che è destinato a non-essere-più? E se era l’Uno, perché allora esse erano molteplici? Perché allora c’erano delle cose? Perché allora dovevano perire? (…) Come salvarle? Già, come salvare le cose? Come strappare le cose al nulla? Come liberarle dall’Essere? Come dare al particolare la propria ragione d’essere in se stesso? Come dare all’istante sia il divenire, sia l’eternità?"

al  vecchio professore di geografia che non ha mai viaggiato e si consuma nel rammarico per aver insegnato ciò che non ha mai visto e conosciuto, al barista filo(sofo) Alfred “sistemista” della vita.

Tuttavia, a finale, chi fa e chi non fa,  chi vale e chi non vale niente, chi tiene un miliardo e mezzo di amici e di femmine e chi si mette scuorno di andare al bordello ma poi ci va,   chi si consuma nei sensi di colpa e  chi si crogiola nell’accidia e  chi si lancia a precipizio nell’iperattivismo,  per tutti, per tutti quelli che si incrociano e   chiacchierano mentre continua  il viaggio, (e in ogni luogo e tempo) ci sta un solo punto d’arrivo. 

“Passano i giorni e passano anche le notti, e gli anni e le stagioni, e si potrebbe credere che tutto continuerà a girare così per sempre, come continuano i clienti a venire a prendere il cappuccino o l’aperitivo quotidiano, ma verrà il momento che non ci saranno più stagioni né anni, e tanto meno giorni e notti, che i pianeti avranno completato le loro rivoluzioni, che i fenomeni non avranno più periodi, che tutto smetterà di esistere. L’intero universo svanirà, avendo compiuto il suo destino, come qui e ora si compie il destino degli uomini.”

Grazie assai per la rivelazione. 
Mò solo perché è Raimondo, insomma.
Anche Raimondo è stato giovane e acerbo.
(però je l'aime anche così)


mercoledì 5 febbraio 2014

Alberi erranti e naufraghi

Tre famiglie, gli Arca, i Nonne e i Branca,  intrecciano le loro storie in una Sardegna che conserva nomi di città, Arbatax, Lanusei, ma che si trasfigura nei boschi, in un tempo che sembra il presente ma che ha retaggi antichi che vengono tratteggiati da doveri, da codici di comportamento dal sapore preindustriale.


E’ un racconto in cui assente è la “società”: non c’è sfondo, se non picchiettato da brevissimi tratti
evanescenti – un ufficio postale, una piazza cittadina, un negozio di merceria -  e anche l’ambiente naturale è in qualche modo “astratto”:  un mare d’inverno al quale si arriva dopo  lunghi giorni di camminata nei boschi, un luogo segreto  dove nascosti dalla selva vivono  bambini orfani ed erranti radunati in banda.

Il fuoco è tutto dentro le caratteristiche dei protagonisti:  hanno poco di realistico, sembrano quasi  personaggi di una fiaba, rigidamente rinchiusi nel proprio ruolo.
Surreale e poetico, il principe/semola che salva la fanciulla dalle fauci dell’orco, è Giuliano Arca, che  lega una sedia sulla schiena e per anni gira l’Ogliastra, boschi e paeselli, alla ricerca di suo padre,  e surreale è anche Maddalena Branca, personaggio “cerniera”, che crede di innamorarsi di un tarpatore di ali e di sentimenti.
Grottesco è  Edoardo Branca, la cui moglie adorata e adorante è volata come fogliolina ingoiata dai cattivi pensieri,  rigidamente ottuso  e cattivo è Michelangelo Nonne, come lo è suo padre Sebastiano.
Cogli l’attimo felice, che del doman non c’è certezza, e  scappa, mettiti in cammino come fanno gli aranci in inverno, e fuggi da chi vuol farti diventare ramo stecchito.
Questa sembra la morale della favola ecologica – i buoni tessono legami con animali, piante, giardini, pioggia e vento -  di Albero Capitta.

Però c’è qualcosa che non mi convince, in questo romanzo.  
E’ diseguale,  non inteso solo come qualcosa che ha alti e bassi, che ha momenti di picco e altri di caduta.
L’impressione è quella di un mosaico che nell’insieme non ha tenuta.
I singoli frammenti, le singole tessere del mosaico hanno una certa originalità, ma l’immagine rappresentata dall’insieme è piatta, e  risaltano troppo le crepe e le smagliature dovute ad una cattiva coesione delle tesserine.
Qualche frammento però è davvero bello.
(Un bell’esercizio di stile.)   


E’ l’inverno che cammina sopra di lui. Alza gli occhi e ne vede la pianta dei piedi, l’inverno della città. (…) Poi la sera si apre e diviene azzurra di stelle che cadono lungo tutto il nevicato. Altre luci, di villaggi, di fioriture invernali, lo circondano; nel corso della camminata un ramo gli ha sferzato una guancia, solo ora ne percepisce il dolore. Un piccolo rosso gli si è disegnato sul volto. Un poco di calore sulla pelle assiderata, una ferita fresca su quel corpo già segnato. Sul viso di Giuliano è apparsa la scomparsa di suo padre.”