domenica 19 gennaio 2014

Il messia

Gli italiani, un popolo di poeti di artisti di eroi  di santi di pensatori di scienziati di navigatori di trasmigratori.
Una boiata, ho sempre pensato (e l’ho scoperto da poco che tale adulante definizione è l’iscrizione posta sulla facciata del Palazzo della civiltà italiana a Roma, esemplare fulgido dell’architettura fascista e della sua retorica visiva e verbale)  a cui per dare un minimo di completezza  bisognerebbe aggiungere anche “di  pazzi [e di pecore]”. 
La frase mi è venuta in mente leggendo il messia di Ennio Flaiano.
Don Oreste D’Amicis, vanto e lustro del comune di Cappelle di Tavo, in Abruzzo, luogo che gli diede i natali, era un  pazzo, ma in qualche modo un artista,  un eroe,  un pensatore, e forse  un santo.  
Flaiano recupera le notizie biografiche da un opuscolo scritto nel 1890 da un folkorista, Antonio De Nino, citato anche nel racconto, ma  immagina che sia il nipote di Don Oreste, anche lui parroco di paesello, a raccogliere informazioni e a raccontare le gesta del suo consanguineo.
E’ una voce melanconica e ironica, quella del narratore in prima persona, la voce del vecchio parroco:

 “Sono talmente vecchio che, per dirvene una, stamattina tirando i piedi fuori dal letto sono rimasto incantato, non saprei  dirvi per quanto tempo,  a guardare la quercia del mio orto che protende i suoi rami più alti verso l’unica finestra della mia stanza. (…) E così mi sono accorto che un albero può assumere la stessa importanza  di una persona viva. Io sento per questa quercia, che durante settanta due anni ho visto fiorire e rassodarsi, una venerazione familiare, e tra noi un legame tenace, un amore completo, vivo e  cupo come le sue foglie e, purtroppo, come i miei rimorsi: una reciproca fiducia senza reticenze.
Sarei rimasto a meditare sulla natura di quest’albero se un primo starnuto non mi avesse avvisato del pericolo che corre un vecchio a  stare coi piedi nudi sul pavimento.

Sembra quasi voler giustificare la consegna ai posteri della figura del suo zio, un pazzo (“Probabilmente oggi Don Oreste verrebbe messo in un manicomio”) ma anche un eroe, in qualche modo, di fronte al quale la sua vita sembra come quella della quercia.

Ma quel che si richiede maggiormente ad un messia è che abbia tempo da perdere; voglio dire, che sia capace di astrarsi dalla sua realtà per servire quella degli altri. E invece io fui abbastanza pavido e non negai la mia realtà.

Il resoconto della vita del messia, che si dipana  su due terzi del volumetto,  è  un pretesto  - con tono garbato, misurato ma sottilmente sarcastico e caustico -,  per  mettere alla berlina  un certo modo di vivere la religione: straordinarie in questo senso sono  le pagine sulla preparazione dei miracoli, o quelle sui consigli impartiti ai discepoli.

In fondo, ha ragione lui, il nipote di Don Oreste, almeno  fino al 1900
Soltanto nelle chiese si poteva soddisfare la disposizione allo spettacolo che l'uomo ha innata.” 
Poi, hai voglia. 
Mica solo televisione.


lunedì 13 gennaio 2014

Bambine bis

In processione, prima è apparso il porte enfant, poi la nonna che lo teneva manco fosse un panaro, poi lei dietro. 
“Professorè, vi ho portato a vedere mia figlia”
Lucia è tornata. *
Cappellino con il fiorellino rosa, tutina rosa, giacchettino rosa, copertina rosa, faccina rosa.
Un batuffolino rosa, la figlia, la nipotiglia. 
Una bambulella.
“Professorè, ho partorito quasi due mesi prima, l’hanno tenuta nell’ospedale un sacco di tempo, pesava  1 chilo e 600 grammi”
Ratto la nonna vicemadre solleva la creatura  addormentata  dal caldo e rosato nido e me la piazza in braccio. 
L’animella si contorce, si inquieta.
“Uh, signora, ma stava dormendo, perché l’ha presa ?”
“E che fa, si deve abituare a tutto.” 
A un mese e 6 giorni, si deve abituare a tutto.
“E’ una bambina bellissima [e lo è davvero], Lucia, proprio una bambolina. Non c’è il pulsante per spegnerla, quando di notte piange?”
“Non piange, dorme” – dice la nonna vicemamma, prima di riprenderla per farle fare il tour des  professeurs.
E’ la figlia di Lucia, che è figlia di sua madre.  
Mi è calata una tristezza infinita bis. 
Non per una sola bambina, stavolta. 



domenica 12 gennaio 2014

Novella degli scacchi ed elogio alla follia

Non ne capisco un cavolo di scacchi. Non ho la più pallida idea di come si muovano i pezzi, di quali siano le mosse da fare, da prevedere, di quali siano le regole del gioco:   eppure la Novella degli scacchi di  Stefan Zweig mi è garbata.
Gli scacchi, il gioco e la sfida,  non sono che una metafora  della visione del mondo di Zweig: sconfitta,  o meglio ancora rinuncia, come quella che lo stesso autore si apprestava a compiere nella vita reale: il suo ultimo racconto prima del suicidio.

La prefazione di  Daniele Del Giudice, da leggere rigorosamente dopo,  mette in evidenza chi si contrappone nelle partite a bordo della nave diretta in America: i "nemici" non sono tanto l’uomo rozzo e con un solo talento, il campione degli scacchi che “monetarizza” la sua unica abilità, simbolo del nuovo modello di umanità che la società del ‘900 impone,  e  il signor B., avvocato , che ha scoperto il gioco degli scacchi  durante la segregazione  ad opera della Gestapo, e lo ha trasformato in un procedimento mentale atto alla sopravvivenza ma destinato a  diventare squilibrio.
I veri “antagonisti”, dice Del Giudice,  sono  Czentovič  e il narratore,  ovvero  la voce e lo sguardo di Zweig,  ancorato  al modello di uomo “aristocratico” dell’800, incapace di  “considerare” l’uomo nuovo, il nuovo cliente, ma  al suo cospetto  irrimediabilmente perdente.

Mano a mano che il pedale della narrazione appoggia su una metafora secca, quasi senza accorgercene scivoliamo da un conflitto a un altro: l’opposizione non riguarda più due manie contrapposte, una naturale e l’altra forzata, né la tragica resistenza spirituale contro il nazismo, bensì il tramonto dell’anima aristocratica, sensibile tormentata costretta a soccombere di fronte a un’intelligenza arrogante, selettiva e perciò “vincente”. E da qui in poi cominciamo a tenere sempre più per Czentovič e un po’ meno per Zweig.

Non ho alcuna particolare (anzi, alcuna senza particolare) ammirazione per chi concentra tutto sull'abilità unica, e ne fa il perno della propria esistenza o dei propri sogni, e penso ad esempio a chi guadagna più dei passeggeri di un vagone della metropolitana messi insieme solo perchè sa menare la palla in una porta.
[Sono  fuori moda senza  alcun appello]
In realtà mano a mano che il pedale ecceteraeccetera,  non ho mai cominciato a tenere per  il contadino russo.
E neanche  per Zweig,  che costringe il signor B. all'abbandono, scuotendolo dal  delirio.

La mia simpatia è tutta per il  signor B.,  al quale mi sarebbe piaciuto dare un’altra possibilità,  al di fuori del gioco e delle regole.
Fuori dal gioco e dalle regole.

La mia Novella degli scacchi è questa.