lunedì 30 settembre 2013

Un pomeriggio al museo.

A Capodimonte si va a correre e a pazziare a pallone. 
(iamm ‘o bbbosco)
E’  un luogo di svago per gli abitanti  della periferia nord della città:  in qualche modo, pur stando ad uno sputo (ma ad uno sputo in salita) dal centro, è vissuto come un altrove.
Un luogo privo di qualunque aura snob e sciccosa, anche meta di picnic e macromagnate  nel giorno di lunedì in albis. 

I Borboni borbotteranno nelle tombe  per cotanto sfregio, per la proletarizzazione di tutti i loro parchi venatori,  ma qui  a Capodimonte si rivolteranno proprio.
Che stiano tranquilli sulle collezioni, però. 
Sono al sicuro, dentro il museo, ad appannaggio di un ristrettissimo numero di curiosi. 
Ma proprio ristrettissimissimo.
I Borboni nella dimora di Capodimonte ci inzepparono quintalate di opere d’arte. 
E ce ne sono  ancora a quintalate, persino opere di arte contemporanea (un nome: Andy Warhol). 
In un qualsiasi altro paese europeo (fatta forse eccezione per la Francia, ma tolta Parigi manco) , scorporando le collezioni  ne ricaverebbero  minimo minimo una quindicina tra pinacoteche, musei di ninnoli e gliptoteche,  e ne farebbero strombazzanti  panegirici.
(non ci sappiamo proprio vendere. Ci buttiamo o ci regaliamo)
Ci ho portato degli amici turinesi. 
Nel nostro giro,  in due ore di ammirazioni, abbiamo incrociato solo altri tre visitatori.
(non tutti insieme, naturalmente. Su piani e sale diverse.
ahhh, 5 visitatori, se si considerano anche i due giapponesi incrociati all'ingresso, mentre uscivano)

Ho pensato che il museo di Capodimonte è  un luogo pericoloso. 
Suscita pensieri cattivi. 
Oltre quelli suddetti  del troppa grazia santantonio,  per più di qualche attimo sono stata sfiorata da una malsanissimo impulso creativo. 
Ho pensato che avrei potuto ravvivare l’eburnea  statua di Letizia madre di Napoleone, opera di Canova, rendendola appena appena più femminile, un tocco di rossetto, un poco di fard, un velo di ombretto, qualche meches ai capelli. 


Ho pensato che avrei potuto illuminare la disperazione dei ciechi  di Brugel il vecchio.


Ho pensato che avrei potuto mettere tra le mani del soffiatore di El Greco  le bolle di sapone, piuttosto che un carbone ardente. 

E chi mi avrebbe fermata? Chi mi avrebbe impedito, se avessi voluto,  di fare uno sfregio sul costato del Cristo flagellato di Caravaggio, se avessi voluto mozzare la testa del Cristo crocifisso di Masaccio, se avessi voluto fare la pipì e la popò (massimo atto creativo) su una poltroncina regale.
Nessuno.
(i miei amici torinesi, gente seria, di sicuro)
Nessuno nelle sale, nessuno a controllare le sale.
Però le toilette sì.
Metti che qualche squilibrato voglia che so, imbrattare di gocce d’acqua lo specchio del bagno.
Meglio prevenire che pulire.
(ben due dico due custodi seduti sui divanetti antistanti i gabinetti)
In verità ne abbiamo incrociato (dopo averlo tanto cercato) anche un altro.
E’ a lui che ci siamo rivolti per sapere perché oltre il Caravaggio non si poteva andare, perché vi era un cordone che impediva l’accesso al piano dove ci sono le opere d’arte contemporanea.
“E non si può andare, scatta l’allarme, ci sta la visita guidata, non ve l’hanno detto in biglietteria? Una alle tre e mezza e una alle cinque e mezza.”
E no che non ce lo hanno detto in biglietteria.
Penso che si riferisca a questa cosa qui, scoperta dopo, naturalmente.
Ma anche ammesso, chi non vuole fare la visita guidata, perché non dovrebbe visitare il museo? Mica c’è scritto che saltando la visita guidata viene impedito l’accesso alle sale.
“E scatta l’allarme, mi dispiace, mi dispiace che non ve l’hanno detto”.
Bah.
Boh.
Mi viene  un atroce dubbio.
(l’ho detto che la pinacoteca suscita cattivi pensieri)
E se per caso avessero pensato di cominciare a chiudere piano piano, che a farlo tutto insieme alle 19 e 30 diventa uno stress?
E se non ci fosse stato  manco un cristiano spelacchiato a seguire  la visita guidata, e se avessero pensato i custodi, tramortiti dal dolce far niente  mò sti scassacacchi ci devono far fare le guarattelle per acchiapparli pure all’ultimo piano e potergli dire  signori tra mezzora il museo chiude, meglio prevenire che rischiare di sfaccendarsi?
No, non è possibile. Sono trooooooppo cattivissima, e neanche creativa, non va bene.

Di certo chi voglia godere dell’esperienza di osservare in lungo e in largo, di profilo e a capasotto le straordinarie opere che a Capodimonte sono custodite farà bene a consultare spingolo spingolo il sito, a chiedere in biglietteria prima di addentrarsi.

Perché, pensieri cattivi a parte, ne vale davvero la pena. 

domenica 15 settembre 2013

Le notti bianche

Il protagonista di le notti bianche è un sognatore, un timido, un esiliato dalla vita sociale.
Eppure, come tutti i sognatori e i romantici, non disprezza gli uomini, il contatto umano, l’ammore.
Anzi, nonostante non parli con nessuno, non abbia amici, desidera  così ardentemente “l’altro”  che gli pesa la Pietroburgo vuota, coi suoi abitanti riversi nelle dacie in campagna a godersi l’arrivo della primavera, e si riduce a scambiare parole coi palazzi,  quasi fossero animati.
E’ così tanto bisognoso di “umanità” che,  incontrata una ragazza durante una passeggiata, complice un evento casuale,  attacca bottone.
Lui, il timido, l’esiliato.  
Le parla di sè, oibò, le tiene la mano.
(lui, il timido, l’esiliato, il sognatore)
Lei, Nasten' ka, ricambia le attenzioni.
E’ legata con una spilla da balia alla nonna, e da una promessa ad un uomo.
(Ahh, quanto è volubile l’animo delle donne, qual piuma al vento…)
Chi di sogno ferisce di sogno perisce:  l’eroe romantico  aiuta la fanciulla  a ritrovare l’antico e  non del tutto perduto amore  spingendola a scrivergli una lettera e recapitandogliela.
L’illusione di un amore possibile, anche se per una delle parti è solo un amore di ripiego  [chiodo schiaccia chiodo,  e che palla tutti quei " vi amo quanto vi amo vi amo come fratello perchè non vi amo quanto amo lui] è presto cancellata dalla disillusione. 
Tuttavia, quanta generosità, quanta bontà e riconoscenza, per tre notti di sorrisi e di strette di mano.
"Dio mio! Un intero attimo di beatitudine! Ed è forse poco seppure nell'intera vita di un uomo?..."
Risponderei con il cinismo che mi è proprio, sì, è troppo poco un attimo soltanto di beatitudine.
Proprio non sono una sognatrice.
[Nemmeno un cronopio, purtroppo per me, a volte un tantinello fama]
Comunque, anche se  non è stata una lettura di quelle che m’hanno fatto eco, una di quelle che mi hanno  rimbombato negli interstizi della mente e della panza,  con  piglio di burocrate mi tocca fare ammissione di originalità almeno su alcuni aspetti  del racconto: la scenografia ridotta all’osso, la presentazione  semi-monologante dei due unici personaggi  (Racconta! Ascolta!)  tale che il romanzo sembra aver  un impianto teatrale: la scena con il ponte, la scena con la panchina.
Il tutto funziona come una sorta di occhio di bue che sfonda le gabbie toraciche e le scatole craniche dei protagonisti: la donna mobile e il sognatore.

Però mi chiedo se non l'avesse scritto Dosto, ma che so, Novikov Aleksey cosa si sarebbe detto di questo libro, romanzo sentimentale.
Certo, alcuni temi della sua poetica  vi si intravedono in nuce, ma quanta distanza dalla produzione matura.
(il sognatore, così ben disposto verso l’umanità, mi pare un Aljosa imperfetto)
Non so.

Forse è tutta una questione di archetipi (o di condizionamenti).

giovedì 5 settembre 2013

12 uova e un filo(che) di memoria

Sembra  un’assurdità trasformare un evento tragico come l’assedio di Leningrado  in una avventura rocambolesca, poetica e anche ironica,  in una formidabile storia di amicizia e di amore. 
(e di amore per la vita). 
David Benioff ci è riuscito. 
E’ un giovane scrittore e sceneggiatore americano di origini russo/ebraiche. 
Sua è anche la sceneggiatura di X-Men le origini – Wolverine. 
(urca, Logan) 

Due vite in cambio di 12 uova da trovare in meno di sei giorni, una missione che pare impossibile in una Leningrado assediata dai nazisti,  stremata dalla fame,  ridotta a sciogliere le coste dei pochi libri sopravvissuti alle stufe per ricavare dalla colla delle  stecchette dolciastre; una città dove tutto fa brodo – anche la carne umana- , pur di mangiare. 
Tzè,  12 uova fresche. 
Lev, di padre scrittore portato via dalla polizia segreta russa, e di madre e sorella sfollate, ha solo 17 anni.
Un ragazzino, ebreo, per giunta,  che gioca a fare la resistenza antiaerea sul tetto del suo palazzo. 
Kolja è di poco più grande, è un cosacco birbante e strafottente, un tombeur de femmes, ma anche il suo opposto – ah, il segugio nel cortile - ; è un soldato dell’armata, ma  il richiamo del pisello ( la cazzite va sempre curata)  che  gli ha impedito di ritornare in tempo al suo battaglione, lo ha trasformato in un disertore. 
Entrambi finiscono nel carcere sulla Neva, disertore l’uno, ladro di beni di cadavere tedesco piombato dal cielo l’altro.

I soldati muoiono e i civili anche, a meno che non siano figli di generali e di comandanti in capo. 
Quelli, i generali e i comandanti in capo,  hanno la pelle e la panza al sicuro sempre, e possono permettersi lussi inauditi, per sé e per i propri, e anche capricci,  come offrire a un ladro e a un disertore la possibilità di avere salva la vita se riusciranno a trovargli 12 uova. 
Nei brevi lunghissimi giorni che Lev e Kolja trascorreranno insieme alla ricerca del mezzo magico per guadagnarsi il passaporto dei viventi, ne vedranno e ne faranno che manco gli X-men (e chi ha veramente subito la guerra),  impareranno a diventare amici, anzi, a volersi bene;  uno dei due troverà l’ammore, una partigiana cecchina ( e rossa di capelli)  che avrebbe potuto insegnare a  Zajcev, l’altro invece... 

Il libro inizia con pagine che sembrano (sono?) autobiografiche. 
L’autore va a trovare i nonni e si fa raccontare di Leningrado. 
“Quando ha terminato il racconto, l’ho incalzato sui dettagli: nomi, località, condizioni atmosferiche di certi giorni. Lui ha tollerato fino a un certo punto, ma alla fine si è chinato in avanti e ha schiacciato lo stop del registratore. “E’ stato tanto tempo fa” ha detto. “Non mi ricordo com’ero vestito. Non mi ricordo se c’era il sole”.
“Volevo solo essere sicuro di non sbagliare niente.”
“Non sbaglierai”.
“Questa è la tua storia. Non voglio mandare tutto a puttane”.
“David…”.
“Ci sono un paio di cose che ancora non tornano…”
“David” ha detto, “sei tu lo scrittore, inventa”.

E ha inventato bene, proprio bene, perché nonostante il picaresco e lo humor,  la sensazione claustrofobica dell’assedio e delle sue conseguenze, lo sdegno e la rabbia per le prepotenze, la compassione per la sofferenza, quelli ci sono tutti.
Ma c'è Kolja.
Kolja, caro delizioso ragazzo, è davvero un  personaggio chiave,   pietra d’angolo  della vita che si erge al di sopra di tutto, anche  delle più orrende paure.  
L’alleggeritore dei drammi. 
(il tombeur continua a colpire)

Io non so valutare quanta invenzione e quanta realtà ci siano nel romanzo, e neanche me ne fotte.
Mi è piaciuto  assai abbastanza, questo libro "ammericano".
Mi piacerebbe però se davvero fosse nato così,  da un racconto del nonno su cui l’autore  ha fatto ricami. 
Per un attimo ho pensato che  se fossi stata una scrittrice avrei potuto ricostruire lo sbandamento dei soldati italiani dopo l’armistizio e la fuga attraverso le montagne e le pianure, per giorni, settimane, pur di tornare a casa, dalle mogli, dai figli, dalle madri, prendendo spunto dai radi e scarni racconti di mio nonno. 
Lui, uomo di mezza età con famiglia già numerosa a carico, indifferente alla politica e per natura ostile alle guerra, catapultato in Yugoslavia con un fucile in mano, quando l’unica arma che conosceva era la canna per soffiare il vetro,   che manipolava con maestria, facendo venire fuori dalla massa infuocata oggetti leggeri come l’aria, fu un soldato in fuga. 

E’ tardi, ormai per registrare la sua voce.

(E  ça va sans dire,   non sono una scrittrice)