mercoledì 29 maggio 2013

Chiacchiere da bar

Ho un debito, con Stefano Benni. 
Mi ha garantito la sopravvivenza in molte ore di sostituzione. 
Ero al mare, non troppi anni fa, quando lessi il suo primo libro di racconti, Bar sport 2000
So benissimo che i benniani (bennisti?) della prima ora ritengono insuperabile il primo Bar sport,  quello della Luisona, che non so chi sia, ma è diventata mitica anche solo come significante. 
Errata corrige.
Proprio mò, in contemporanea alla scribacchiazione del tributo al Benni d’annata (che ancora rosico per Le beatrici, insomma, un tanto a parola, mi è sembrata una raccolta fatta per batter cassa), per curiosità e sempre grazie a santaWikipedia ho scoperto che la Luisona non è, come immaginavo, la proprietaria tettona del bar, bensì la decana delle paste da vetrina. 
(mi si è spoetizzata l’immaginazione)
Vabbuò.
Insomma,  ho cominciato dal mezzo,  e in quel mezzo del Bar sport 2000 c’è un racconto, Sigismondo e Vittorina, grazie al quale dal settembre successivo ho amabilmente intrattenuto platee di mucchette e vitellini coriacei e resistenti all’attenzione, certo, facendo le vocine e lanciandomi persino nel canto di pensiero stupendo (forse l’istupidimento da esso derivato ha potuto più delle parole, mah, mistero), creando la giusta suspense per sparare i sette finali diversi, 
anche se censurando talvolta quello dello stupro, per evitare inconsulte ovazioni.

Da quell’estate in cui ho scoperto Stefano Benni, non sono più riuscita a non associarlo all’utilizzazione didattica. 
Naturalmente ne ho sempre tratto anche personale godimento, sensazione di rilassatezza, sorrisino e  anche qualche oooh  di fresca meraviglia (forse non tanto con Achille piè veloce), e tuttavia  ad ogni libro acquistato  il primo pensiero  è sempre vediamo se trovo qualcosa che mi possa servire per

Ne “Il Bar sotto il Mare” ce ne sono un montone, di spunti per.
Da settembre  farò man bassa. 
A me già ha intrigato  la copertina, un improbabile ammescafrancesco di personaggi,  e sono loro - visibili e invisibili -  che raccontano, “perché chiunque entra nel bar sotto il mare deve raccontare una storia”.
Compresa la pulce del cane. 
(compresi voi, cari mucchette e vitellini, facciamo che dobbiamo inventarne una con un mangiatore di fuoco, un clown innamorato, una donna cannone)
L’eterogeneità dei personaggi si riflette nella varietà delle storie: Benni utilizza  le strutture narratologiche dei generi letterari più disparati, dalla fantascienza al mistero, dal giallo al romanzone d’ammore (quello russo poi, gote infiammate e cuori in palpitazione), dall’epistola al mito e alla fiaba, tutti trattati con la cifra bulimicamente ironica e agrodolce che gli è propria.
Ce n’è qualcuno un poco così cosi, ma alcuni mi sono piaciuti proprio tanto: il cattivissimo La chitarra magica, il saporitissimo Il più grande cuoco del mondo, e poi la splendida sfida di insulti, rutti e vino e salsicce  tra i sompazziani doc Achille e Ettore per il possesso di una bicicletta, e la chicca, il Verme Disicio, che qui riporto.

“Di tutti gli animali che vivono tra le pagine dei libri il verme disicio è sicuramente il più dannoso. Nessuno dei suoi colleghi lo eguaglia. Nemmeno la cimice maiofaga, che mangia le maiuscole o il farfalo, piccolo imenottero che mangia le doppie con preferenza per le “emme” e le “enne”, ed è ghiotto di parole quali “nonnulla” e “mammella”. Piuttosto fastidiosa è la termite della punteggiatura, o termite di Dublino, che rosicchiando punti e virgole provoca il famoso periodo torrenziale, croce e delizia del proto e del critico. Molto raro è il ragno univerbo, così detto perché si ciba del solo verbo “elìcere". Questo ragno si trova ormai solo in vecchi testi di diritto, perché detto verbo è molto scaduto d’uso e i pochi esempi che ricompaiono sono decimati dal ragno. Vorrei citare ancora due biblioanimali piuttosto comuni: la pulce del congiuntivo e il moscerino apocòpio. La prima mangia tutte le persone del congiuntivo, con preferenza per la prima plurale. Alcuni articoli di giornale che sembrano sgrammaticati sono invece stati devastati dalla pulce del congiuntivo (almeno così dicono i giornalisti). L’apocòpio; succhia la “e” finale dei verbi (amar, nuotar, passeggiar). Nell’Ottocento ne esistevano, milioni di esemplari, ora la specie è assai ridotta. Ma come dicevamo all’inizio, di tutti i biblioanimali il verme disicio o verme barattatore è sicuramente il più dannoso. Egli colpisce per lo più verso la fine del racconto. Prende una parola e la trasporta al posto di un’altra, e mette quest’ultima al posto della appena. Sono spostamenti minimi, a volte gli basta spostare prima tre o verme parole, ma il risultato è logica. Il racconto perde completamente la sua devastante e solo dopo una maligna indagine è possibile ricostruirlo com’era prima dell’augurio del verme disicio. Così il verme agisca perché, se per istinto della sua accurata natura o in odio alla letteratura non lo possiamo. Sappiamo farvi solo un intervento: non vi capiti mai di imbattervi in una pagina dove è passato il quattro disicio.” 


domenica 5 maggio 2013

...che ne è del resto?

In principio fu una domanda.

“Se è così, se possiamo vivere solo una piccola parte di quanto è in noi, che ne è del resto? “
Sparata a bruciapelo, che ne pensi? 
E che ne pensavo. 
Spreco, niente -  risposi.
In realtà pensavo che la domanda fosse una strunzata . 
Si vive di fatto, non in potenza. 
Il resto sono solo pensieri. 
(non sono filosofa e certe volte ne farei volentieri a meno, dei pensieri.)

La domanda è una delle millanta che sono racchiuse nel libro “Treno di notte per Lisbona”. 
In genere non leggo mai un libro poco prima di averne letto commenti, giudizi, recensioni. 
Temo i condizionamenti. 
Vabbuò che mi basta poco per scordarmeli. 
Dopo una settimana già si  è definita una tabula rasa e quello che resta è la vaga sensazione che  mi piacerebbe o non mi piacerebbe leggere il tale libro. 
(dopo 15 giorni scompare anche quella)

Del libro da cui  aveva tratto la domanda mi  ha detto peste e corna, e poi  mi ha passato il pdf. 
“non devi mica ciucciartelo tutto, magari solo qualche paginetta per farti un' idea.
capace pure che ti piace, eh!, e che quello privo di zenzibbbilità narrativa so' io.”
Bel regalo, grazie, infinitamente grata.
Fossi capace di abbandonare un libro, mi resta sempre lo scrupolo di coscienza.
(ah, non sempre è facile esercitare i proprio diritti, Monsieur Pennac)
E allora, dopo averlo letto, * servendomi  da pagina 90  della lettura veloce (leggi un rigo e ne salti nove, senza perderti assolutamente niente), e avendolo trovato di una pretestuosità  abnorme, mi chiedo:
Sarò mai stata condizionata dal suo giudizio? Avrò fatto  bene a compensare la sua valutazione con un'abboffata di commenti entusiastici e mielosissimi? In che modo riusciamo a discernere  il buono dal cattivo,  in maniera  istintiva o perché non siamo altro che  sostenitori di miscugli di pregiudizi preconfezionati  a cui aderiamo per convenzione, per simpatia, per imposizione? Esiste il libero arbitrio? E il giudizio incondizionato?

Vabbuò.  E’ meglio se me ne vado a fare una passeggiata. 
No, una ruzzliata.  
No, una telefonata a quell’amica  che mi introna la capa di chiacchiere e mi libera dalle mie. 




* il commento qui.
http://poostiiilleee.blogspot.it/search/label/Treno%20di%20notte%20per%20Lisbona

mercoledì 1 maggio 2013

Rughe e altri accidenti


“… e dissi faticosamente: Avevamo sognato di invecchiare insieme. Qualcosa lo irritò; mi gettò addosso il suo pesante sguardo di miope con palese arroganza: Scordatelo, disse. Le donne come Ana non hanno il diritto di invecchiare. “

Miguel Delibes - Signora in rosso su fondo grigio.


Ana è la  Signora in rosso su fondo grigio.
Una donna sottile e slanciata, una caterva di figli e non un filino di ciccia o una smagliatura, bella e tosta, a 48 anni, come una ragazzina.
La malattia le avrebbe lasciato segni: paralisi del volto, ma sempre meglio di un chilo in più.
Ma un imprevisto, dopo l’intervento chirurgico, le risparmia il sacrificio di invecchiare.

Quando ero piccola, le mamme avevano l’aspetto di mamme.
Forse prima c’era un discrimine nell’abbigliamento, nelle pose, negli atteggiamenti, tra mamme e figlie:  capitava rarissimamente di pensare che  potessero essere sorelle, eppure spesso la differenza reale di età non era tanto marcata.
La signora V. abitava nel mio palazzo.
Lei era diversa dalle altre mamme: i capelli platinati lunghissimi, lisci lisci e fluenti, i tacchi  altissimi, il trucco da bambulella.
Sembrava la fidanzata di suo figlio.
L’ho rivista dopo molti anni tre volte,  anche se non è andata ad abitare lontano, solo qualche palazzo più un là: la prima volta mi venne un pànteco, quando si girò.
Di dietro era sempre la stessa,  una ragazzina sculettante.
Ma il viso infilato nella tenda dorata dei capelli rivelava una ragnatela di rughe e di macchie e il trucco si spargeva in modo grottesco negli avvallamenti cutanei, formando grumi.
La rividi dopo non molto tempo, forse un paio di anni. Aveva le stampelle, e scarpette da ginnastica.
Pensai ad un incidente.
L’ultima volta l'ho vista un mesetto fa. Lei aveva sempre i capelli biondissimi,  un vestitino rosa e le scarpe con il tacco.
Il marito stava tentando di spostarla dalla sedia a rotelle al sedile dell’auto, tenendola in braccio, con fatica, mentre lei agitava le mani nervosamente, le gambe inerti come stecchette di una marionetta.
Ricordo di aver provato una grandissima pena,  forse più che per lei o per suo marito, per me  stessa e per i miei pensieri molesti.

Il diritto di invecchiare dovrebbe essere concesso a tutti.
Bisognerebbe però anche godere del diritto di imparare il piacere di invecchiare.
E’ più difficile adesso, in un tempo che ci vuole tutti  belli giovani e pimpanti, anche ad 80 anni.