"Venivano a grandi salti, e urlavano come animali inferociti, esaltandosi dalle loro stesse grida. Erano maschere contadine. Erano tutte bianche: in capo avevano dei berretti di maglia o delle calze bianche che pendevano da un lato e dei pennacchi bianchi; il viso era infarinato; erano vestiti di camicie bianche e anche le scarpe erano coperte di bianco. Portavano in mano delle pelli di pecora secche e arrotolate come bastoni, e le brandivano minacciosi, e battevano con esse sulla schiena e sul capo tutti quelli che non si scansavano in tempo. Sembravano demoni scatenati; pieni di entusiasmo feroce, per quel solo momento di follia e di impunità, tanto più folle e imprevedibile in quell’aria virtuosa. Mi ricordai della notte di san Giovanni a Roma, quando i giovani vanno in giro picchiando con delle grosse teste d’aglio: ma quella è una notte di felicità collettiva e fallica, di baldoria dinanzi agli enormi piatti di lumache, con i fuochi, i canti, le danze e gli amori nel tepore benigno del cielo estivo. I battitori di Gagliano erano invece soli, e solitari in una sforzata e cupa follia; si compensavano degli stenti e della schiavitù con un simulacro di libertà, pieno di eccesso e di ferocia vera. I tre fantasmi bianchi picchiavano senza misericordia chi veniva a tiro, senza distinguere, poiché una volta tanto tutto era lecito, fra signori e contadini, e tenevano tutta la strada in salti obliqui, presi dal furore, gridando invasati, scuotendo nei balzi le bianche penne, come degli amok incruenti, o dei danzatori di una sacra danza del terrore."
Carlo Levi - Cristo si è fermato ad Eboli
Non mi ricordo dei carnevali bambini, anche se esistono le prove (fotografie: damina, fatina, cenerentola).
Mi ricordo però dei veglioni anni più in là (sopra tutti, la melanzana, con tanto di turzo verde in capa)
E della fuggente visione dal finestrino della macchina, verso Calvi risorta (forse, o Capua?) di bambini vestiti di bianco, come i fantasmi di Gagliano.
Mi ricordo che, prima delle ordinanze “civilizzatrici” dei sindaci e dei vigili urbani, era un’impresa sfuggire al lancio di uova e farina (il coprifuoco diurno di Carnevale, e i pulmann arancioni coi finestrini a macchie gialle).
Anche adesso lo è, all’entrata e uscita dalle scuole di periferia, senza farina, fa meno danno dell’uovo marcio e della bomboletta di schiuma.
(pare che il divertimento sia tutto nel colpire chi non dà nessun segno di voler partecipare al gioco)
Penso a Bachtin (un gioco da poveri), e al pomposone carnevale di Venezia (un gioco da ricchi).
E una scena.
Ero poco più che ragazzina.
Uscendo dall’ascensore, mi trovai davanti la famiglia nonmiricordopiùilcognome interamente abbardata.
Abitavano al pianterreno. Nulla oltre il buongiorno e il buonasera.
Le figlie: damina fatina damina.
La madre e il padre: hawaiani.
Ricordo i gonnellini di paglia che danzavano oltre i cappotti aperti, le cosce nude, pelose quelle del padre, un ometto piccolo e calvo dall’aspetto mite e dimesso, glabre quelle della madre, una femminona con fluente chioma tinto bionda.
E le collane e le cavigliere e le coroncine di fiori di carta colorata fatte artigianalmente in casa.
Ricordo le punte di ammirazione e invidia: mia madre al massimo avrebbe acconsentito ad una parrucca, mio padre neanche ad un tocco di borotalco sulle guance severe.
Del carnevale, mi piace il mettersi in gioco e il gioco del travestimento.
(mi voglio vestire da Cleopatra, o da caffettiera, o da albero, o da vichingo)