giovedì 26 gennaio 2012

Aria di periferia


Con la metro ci vuole poco ad arrivare al centro dalla periferia.
(ultima stazione Scampia)
Ahh, lo sanno bene i residenti del quartiere bene del Vomero,  le baby gang  (come zoccole) vomitate dai sotterranei  binari, impazzano al sabato sera.
E poi dalla metro collinare ci vuole un attimo per montare sulla funicolare di Chiaia e trovarsi nel salotto buono,  tutto un passeggio di distinte e imperlate signore.
(le cure fanno sembrare tutti più belli)
Per alcuni è più facile. Tutto più facile.
Opportunità, occasioni, ma non è soltanto una questione di moneta.
E’ l’aria.
Ho pensato allo stridente contrasto tra la magmatica folla che gremiva la saletta della libreria Feltrinelli a Chiaia e il vuoto semipneumatico  di un magnifico salone affrescato di un palazzo antico di un paese di periferia.
Entrambe sono state location per l’incontro con uno scrittore.
Lo stesso scrittore.
Famoso.
A distanza di qualche mese, vabbuò, ma poco conta.  Anzi,  lo scrittore nel frattempo è diventato ancora più famoso.

Ho pensato a quanto conti, e costi, ancora una volta, vivere in periferia.
In certe periferie soprattutto.
E’ come se i semi gettati inaridissero al semplice contatto con l’aria.
Aria putrefatta e immobile, che pesa e schiaccia tutto ciò che si muove.
Le rare occasioni vengono perdute e sciupate nella generale indifferenza.

martedì 17 gennaio 2012

Oh, Finnegan's , Finnegans wake.

"Finnegans wake" di  James Joyce. 

Un commento:

Altro che lettura.
Questo è un viaggio, un percorso iniziatico verso gli abissi profondi della conoscenza.
Oltre il reale, oltre il sogno, oltre l’immaginazione, oltre le regole sintattiche la costruzione logica e analogica, oltre.
Finnegans wake è il superamento di tutte le barriere del conosciuto e del conoscibile, approccio epidermico (si può possedere e contenere l’infinito?) al baratro dell’assoluto.
Nulla vi è di più vero dell’intima coscienza, quella che non si può palesare tra i paletti fissati dalle norme linguistiche della comunicazione, quelli fissati dalle convenzioni culturali (i tabù), quella che mette a nudo l’Essenza stessa dell’uomo.
Non è certo una lettura facile. Occorre abbandonarsi alle suggestioni, al flusso di coscienza che viene portato alle estreme conseguenze tracciando, come campanelli, triangoli, percussioni ritmate e lente, un formidabile formichio di sensazioni.
Abbandonarsi ai richiami, spogliarsi delle armi della logica e della ratio, giungere nudi, con i palmi e gli occhi e le orecchie aperte sul mantra del sogno di morte e rinascita di Finnegan, sul divenire, sul mito dell’eterno ritorno che fa dell' esperienza della vita umana un atto di simbiosi con il tempo e lo spazio universale.
Una porta che conduce al dentro e al fuori, una porta che sfonda il concetto stesso di limite.  
Leggere Finnegans Wake è avvicinarsi all’onnipotenza.

E' un finto commento.
Non l’ho letto, il libro.
[Neanche lo farò mai]
Ho solo accocchiato due parole ispirate, aria, aria fritta. 
E' che ne leggo tante, di chiacchiere a vacante, e allora, così, per gioco, non per amore, ho guazzabbugliato pure moi.
Perchè “nell’era della divina apparenza della ferita profonda sul sole della coscienza”, si è tentati, a volte, di  ammoccarsi (e dire) qualunque stronzaggine e blablablablà.
                                                                                                                                                                                   



sabato 7 gennaio 2012

Il Grande della Mancha

[del perchè, malgrado la magnificenza dell'opera, l'hidalgo non mi riesce simpatico]



Chi è Don Chisciotte?
E Cervantes, chi voleva che fosse?
Chi pensavo fosse,  Don Chisciotte?

“Il "potere" è l'immondizia della storia degli umani
e, anche se siamo soltanto due romantici rottami,
sputeremo il cuore in faccia all'ingiustizia giorno e notte:
siamo i "Grandi della Mancha",
Sancho Panza... e Don Chisciotte !"


E invece.
Ce l’ho con Guccini, sì.
[incazzata a morte]
Perché ero innamorata di questo pensiero, dell’immagine dei quei due idealisti che insieme cantano e se  ne fregano dell’apparenza delle cose,  si lasciano trascinare dalla baldanzosa e ardente seppur utopica passione in barba alle scamazzate, alle burle, alle sconfitte.

E invece il Don Chisciotte di Cervantes non è così.
La sua utopia non ha niente a che fare con la giustizia, fuori dalle dichiarazioni di intenti del cavaliere errante raddrizzatore di torti e difensore di donzelle e orfani.
Il suo chiodo fisso non è  il valore della cavalleria  (un valore demodè, fuori dal tempo e in ultima istanza reazionario, e dove c’è reazione non c’è rivoluzione),  ma è il sogno d’amore, il faro Dulcineo che illumina la bolla chiusa della sua immaginazione e in nome del quale la realtà intera si trasfigura e addirittura, per l’opera malefica di  maghi e alchimisti, viene incantata.
E’ così relativo il valore della cavalleria errante che alla fine  l’hidalgo piega il sogno d’amore nella palla arcadico-pastorale – sarà Chisciottigi - poco prima che la ferale malattia non  riassorba la follia, e lasci spazio e tempo al rinsavimento,  per  dare a dio quel che è di dio, con la cristiana confessione, e agli uomini quello che è degli uomini, con il pratico testamento.

La molla, oltre alla saturazione da letteratura – non leggere troppo, ti fa male!!! – è il sogno d’amore.
Il condottiero senza macchia e senza paura è un Buono, senza dubbio.
[Un fesso]
Un cuore puro, ma anche un vinto, uno sconfitto, un perdente.
[e mi fa tristezza, non tenerezza]
Uno che viene preso per il culo di continuo e non se ne rende conto.
E per cosa?
Per amore, solo per amore.
Amore per  qualcosa che non esiste.  
L’ideale.
[Come le suore di clausura che si vanno a chiudere nell’eremo per farsi spose di Cristo e salvare il mondo con la preghiera]

Sono una sporca realista.
Eppure i sogni, oh, i sogni, i desideri, l’immaginazione oh.
Guardare la luna nel pozzo.
Ma  prenderla non potrò mai. 
[acqua sporca, non luna  tra le  mani]

Se si deve sputare in faccia all’ingiustizia la si deve guardare dentro gli occhi e prendere bene la mira.

giovedì 5 gennaio 2012

Eden(perduto)landia

Non capisco l’ostinazione a voler tenere aperta a tutti i costi Edenlandia, lo storico parco-divertimenti nel cuore della città. 
La  società proprietaria è fallita, ma il parco continua ad agonizzare.
E’ un mostro spiaggiato da troppo tempo.
(Sono favorevole all’eutanasia)
Meglio sarebbe cancellarla, chiuderla, decidere una volta per sempre che cosa farne, se metterla in competizione con le megaroboanti strutture dei nuovi parchi divertimento (ah, Gardaland), o fare in modo che diventi un’architettura della memoria, come il parco di Tivoli, a Copenaghen.
(e valle a recuperare, le cose perdute)

Era un evento, un fatto extra-ordinario, andare all’Edenlandia (regalo di compleanno, ad esempio. Altri tempi. Ma adesso va di moda il pellegrinaggio a Disneyland Paris come regalo per i comunicandi).
Nel  Far West tra le scenografie spuntavano o s’intravedevano gli indiani, i soldati blu e i gringos in cartapesta;  l’ultima volta solo un pezzetto di trombettiere senza manco la tromba faceva la guardia al fortino.
Sgarrupati spuntoni di roccia in cartapesta dove un tempo c’erano i tepee, e scrostate pareti cadenti nel “villaggio” dei cowboy, e alle finestre del saloon, appoggiati per dimenticanza o incuria, barattoli di vernice e attrezzi da lavoro.
Per fare il giro sui tronchi, ricordo, la fila era sempre lunghissima.
Nessuna nostalgia delle code, ma.
La grotta dove sarebbero dovuti essere alloggiati i dinosauri – si diceva già millanta anni fa, dopo che venne smontato l’ambaradan dei pirati – è  un gocciolante tetto di lamiere e di travelle di ferro.
Anche l’eco l’ha abbandonata.
(e poi, diamine, la mota dentro quei tronchi, bisogna entrarci con il cuscino di gomma sotto il culo)

In verità ho vaga la memoria di come era.
Forse era il corpo di cui ora è rimasto solo  scheletro e pellecchia.
Non c’era puzza di stantio e di piscio (come nei sottopassaggi abbandonati delle metropolitane),  non allignava il torbidume nelle fontane e nelle vasche, non c’erano la desolazione e l’abbandono.
Forse.
Mi chiedo se non sono gli occhi adulti a farmela vedere tanto brutta e squallida e patetica.
Però poi mi dico che a Gardaland e a Tivoli  ho fatto ohhhhhh.

La fenice rinasce dalle ceneri.

Sì, vabbuò, ma prima adda murì.

domenica 1 gennaio 2012

Una solitudine rumorosa

E' da poco che ho ripreso ad osservare i botti.
Per alcuni anni non l'ho fatto,  un proiettile entrò in casa e si conficcò nel mobile della cucina, altezza più o meno degli intestini di chi si fosse trovato sulla traiettoria 
[aver sete, prendere un bicchiere d'acqua, e. Morire]
Sicchè per tanto tempo a San Silvestro regola è stata, se si giocava in casa, finestre chiuse e serrande abbassate.

Dalla prospettiva della  periferia sozza, anche prima del guaio scampato,  i botti di capodanno mi hanno sempre fatto tristezza. 
Stanotte invece di sparare tracchi dal balcone i signori delle botte si sono appropriati della strada, e al centro della carreggiata (questione di sicurezza, indice di maturità??) hanno sistemato cassette e cassette di fuochi pirotecnici e appicciato batterie su batterie, i razzi da terra fino al cielo hanno fatto piovere luce e polvere nera su tutto il pezzo di quartiere.
(e se un'ambulanza? e se un'emergenza?) 
Non è manco un far festa insieme, dico per loro, per i signori delle botte, andarsene in solitaria miezz 'a via a sparare
Nubi di zolfo e scintille, non sembra un festeggiamento, ma un rabbioso rito di allontamento del malaugurio. 
Un esorcismo triste.
Nel frastuono non ci si può manco scambiare una parola, e col fieto non si apprezza manco lo spumante.
Un inizio d'anno in solitudine troppo rumorosa.