venerdì 29 aprile 2011

Con-dominio

Poveretto, il corriere, con il suo pacchetto in mano ad elemosinare l’accoglienza temporanea per  un libro-omaggio destinato all’inquilina assente presso i citofoni dei vicini.
Crocchietto di casalinghe,  quella con il capello scippato e le paposce al piede  e quella con il tailleur a scacchi neri e grigi, quella con la borsa della palestra e quella con la busta della spesa.
E io no non posso, e io non la conosco, e io non mi assumo la responsabilità, e che ci sta qua dentro - è un libro signora, non si deve pagare niente - , e no e no.
Il corriere soppesa il  pacco.
Transita  la signora A., generalessa dal passo marziale e dalla voce tuonante.
(il palazzo  è un microcosmo. Il parco in cui il palazzo  si stringe ad altri palazzi  è  un cosmo)
Si ferma.
“Ehhhhh,  come, non la conoscete, signò? Al terzo piano sta! Pigliatevi il pacco, lo mettete in una busta e lo appendete fuori alla porta, sulla maniglia, così quando torna lo trova, e che ci vuole, e che è, non si fa questo ai vicini di casa!!”
Così mi dice, una mezzora dopo il fatto, quando  rientro e lei, la signora A.,  ancora cincischia in strada:
“Che brutta gente sta dentro al palazzo tuo, ma che brutta gente. Quello il corriere andava annanz e aret con il pacco in mano, e allora mi sono messa in mezzo, e  ho detto cosa fare. Ho fatto bene? Che brutta gente, che brutta gente.”
“Ma a chi lo avete detto di prendere il pacco?”
“Nun ‘o saccio come si chiama.”
Appesa alla maniglia della porta,  non c’è una minchia.

Poi si dice che la gente non legge.

venerdì 22 aprile 2011

Zobeide

Erano pochi, ma davvero pochi,  quelli che avevano la grazia nella mano.
Invidiavo la capacità straordinaria di mettere sul foglio le immagini mentali (l’interno di un appartamento,  l’iperuranio platonico,  la sinuosità di una fanciulla mentre corre in un campo di papaveri).
I più erano bravi copisti (scopiazzatori)  e assemblatori, o tecnici della matita e delle squadrette.
(E figura disegnata,  la materia del ritrarre dal vero le  veneri  in gesso senza naso, e i corpi semimobili dei compagni scelti a turno, e delle modelle - l’informità  pesante avvolta nel cappottone con collo di pelliccia della modella grassa e la rigidità spigolosa, occhiali quadrati compresi, di quella magrissima.) 
Anni di ruggine. 
E poi d’un tratto, una voglia irrefrenabile di disegnare.
Un fremere della mano.  Come inseguire  un antico sogno.
“Nella disposizione delle strade ognuno rifece il percorso del suo inseguimento;  nel punto in cui aveva perso le tracce della fuggitiva ordinò diversamente che nel sogno gli spazi e le mura in modo che non gli potesse più scappare. Questa fu la città di Zobeide in cui si stabilirono aspettando che una notte si ripetesse quella scena. Nessuno di loro, né nel sogno né da sveglio, vide mai più la donna. “
Italo Calvino  - Le città invisibili.

Non riuscirò mai a disegnare Despina, né Sofronia.

Ottavia

"Se volete credermi, bene. Ora dirò come è fatta Ottavia, città ragnatela. C'è un precipizio in mezzo a due montagne scoscese: la città è sul vuoto, legata alle due creste con funi e catene e passerelle. Si cammina sulle traversine di legno, attenti a non mettere il piede negli intervalli, o ci si aggrappa alle maglie di canapa. Sotto non c'è niente per centinaia e centinaia di metri: qualche nuvola scorre; s'intravede più in basso il fondo del burrone.
Questa è la base della città: una rete che serve da passaggio e da sostegno. Tutto il resto, invece d'elevarsi sopra, sta appeso sotto: scale di corda, amache, case fatte a sacco, attaccapanni, terrazzi come navicelle, montacarichi, docce, trapezi e anelli per i giochi, teleferiche, lampadari, vasi con fogliame pendulo.
Sospesa sull'abisso, la vita degli abitanti d'Ottavia è meno incerta che in altre città. Sanno che più di tanto la rete non regge."

Italo Calvino - Le città invisibili



Invece, appollaiati fin sopra la bocca del vulcano, sugli argini dei fiumi,  su declivi franosi, gli abitanti di qua pensano che il cemento armato  fissi la città alla terra, come una patella allo scoglio, come una zecca al quadrupede peloso.
La loro vita è più incerta che in altre città. Ma non lo sanno, perchè non sanno che più di tanto la rete non regge.

domenica 17 aprile 2011

Nomen omen (Cloe)

Per lungo tempo non ho potuto fare a meno di provare insofferenza - a prescindere -  per le Susanna e i Clemente.
La prima Susanna - finta tutta panna -  che ho conosciuto da bambina,  era un'insopportabile pettegola.
Clemente, poveraccio, era un bacchettone brutto come la peste e con l'alitosi, e non c'era verso di fargli capire che si poteva parlare pure a 50 centimetri di distanza, ti si appiccicava contro (face to face).
E ancora associo ad un nome brutto come Imelda -  Imelda, che terribilità - la quintessenza della dolcezza.
(son tutte dolci le Imelde del mondo)

Intanto.
Il nome ce lo portiamo appresso senza che nessuno ce lo abbia chiesto.
Nominati così.
Supponte talvolta.
Nomi ereditati dai  nonni (il piccolo Onofrio, Oni per i compagni d’asilo), consacrati dalle mode del momento (quanti Diego Armando hanno adesso tra i 25 e i 20 anni), dalle devozioni popolari (le giovanissime Mariarca e i Pio, i santuari della madonna dell'arco e di Pietralcina tirano, tirano).

Da piccola non amavo il mio nome. Neanche ora, ma ormai mi appartiene, come il neo sulla gamba, il dito torto, come ogni pezzetto del mio corpo.
Ci si abitua e ci si riconosce.
Ma non mi dispiacerebbe chiamarmi Cloe.

"A Cloe, grande città, le persone che passano per le vie non si conoscono.
Al vedersi immaginano mille cose uno dell'altro, gli incontri che potrebbero avvenire tra loro, le conversazioni, le sorprese, le carezze, i morsi.
Ma nessuno saluta nessuno, gli sguardi s'incrociano per un secondo e poi si sfuggono, cercano altri sguardi, non si fermano.
(....)
Così tra chi per caso si trova insieme a ripararsi dalla pioggia sotto il portico, o si accalca sotto un tendone del bazar, o sosta ad ascoltare la banda in piazza, si consumano incontri, seduzioni, amplessi, orge, senza che ci si scambi una parola, senza che ci si sfiori con un dito, quasi senza alzare gli occhi.
Una vibrazione lussuriosa muove continuamente Cloe, la più casta delle città. Se uomini e donne cominciassero a vivere i loro effimeri sogni, ogni fantasma diventerebbe una persona con cui cominciare una storia d'inseguimenti, di finzioni, di malintesi, d'urti, di oppressioni, e la giostra delle fantasie si fermerebbe."

Italo Calvino - Le città invisibili.

domenica 10 aprile 2011

Facce di ca

Non  lo ricordo da quanto tempo, in tempo di elezioni, il quartiere  ha cominciato  a riempirsi di facce.
Dei manifesti  con l’imperativo  “vota antonio”  sotto al  simbolo del partito, ne ho antica memoria
(e delle schede elettorali facsimile con il voto e il nome già espresso, a quintalate nella cassetta della posta, e dei cugini di cugini che si presentano bellamente alla porta, anche se tu non li vedi da 20 anni).
Ma non ricordo quando è diventata  così capillare e diffusa, come strategia di propaganda elettorale, tappezzare case, vicoli e palazzi, oltre che gli appositi affari predisposti per le pubblicità, con  le gigantografie delle facce dei candidati, dei  loro mezzobusti.
Penso  soprattutto ai pesci piccoli, non ai grandi piraña.
I grandi piraña ci hanno gli addetti all’ immagine, i pubblicitari, le agenzie e mappate di soldi.
I pesci piccoli  credo  si rivolgano al fotografo dei matrimoni (ma è proprio bravo, eh).
Penso alle pose,  alla camicia e alla cravatta  (giacchetta sì o giacchetta no? Che grande dilemma) scelte con chissà quanta  cura e affanno, al  lavoro del fotografo, le luci e le ombre (suvvia,  non si può mica mostrare il peggiore profilo),  gli sfondi.
Nelle intenzioni  autopromozionali e propagandistiche, il serioso impegnato  è alla scrivania  o a braccia incrociate,  il pimpante giovanile si staglia nel fondo celeste o bianco con posa sciolta, il rassicurante si offre  con il sorriso dolce e lo sguardo malinconico, il durissimo integerrimo è dritto e fiero come un palo.
C’è chi osa senza ritegno.
 Mi perdo nei particolari estetici.
Guardo le facce, le orecchie  a sventola  o con un lobo smisurato, le occhiaie, un naso adunco o con delle gigantesche narici, l’eccesso di peli  sopraccigliari (le sopracciglia doppie  e vicine sono indizio di animo cattivo! – reminescenza lombrosiana) , la bocca troppo durbans per non essere una dentiera,  i radi capelli o i capelli gelatinati.
Guardo le facce e non faccio caso ai nomi, neanche allo slogan o al  partito o alla coalizione.
Tutte diversamente uguali, le facce dei candidati.

giovedì 7 aprile 2011

Vanitá

Una chiesa, poggiata con la sua pianta a farfalla -  muri tondeggianti  come ali spezzate - lungo il corso di un quartiere di periferia. (munnezza,  tutt'attorno, e caos e strepiti di macchine, motorini e voci).
Bassa e bianca tra  anonimi palazzi.
L'oratorio è al piano interrato, vi si accede da una porticina posta su un'ala.
Dentro, un disimpegno su cui affacciano delle stanze.
Il disimpegno è  decorato con pitture murali dipinte in modo fumettistico ed essenziale, colori a larghe campiture e contorni netti: pecorelle e buon pastore, natività, santi indistinti tra erbette e nuvolette e pecorelle (invito alla mansuetudine).
Defilato, quasi nascosto dalla porticina, un ritratto: il parroco.
Abito blu con collarino bianco, braccia larghe lungo i fianchi, ciuffo ribelle, occhiali con montatura di metallo, guance rubiconde, sorriso ebete.
E' proprio lui, non ci si può confondere.
Il pittore è stato fedelissimo, ma gli ha reso omaggio alleggerendolo di una decina di chili.
L'immagine conta, l'occhio deve avere la sua parte.
Il parroco sua santità/vanità.

(meglio pazziare a pallone miezz 'a via)




domenica 3 aprile 2011

Cambiare il corso delle cose

Caso.
Essere in ritardo o  in anticipo, di un minuto o  di un secondo.
Arbitrio.
Dire  no invece di  si, saltare una pillola, non rispondere al telefono o rispondere.

Trovarsi in una piazza ed essere sfiorati ma non toccati, questione di millimetri,  da un' enorme cacata di un piccione volante.
Mazzo (o della felicità)