domenica 29 ottobre 2023

La fredda estate nei Paesi Bassi (5) Nimega, Maastricht, Roermond.

Il castello di Doorwerth, non lontano da Nimega in Gheldria, è   in perfetto stato di ricostruzione. 

Per una fortunata circostanza la visita è capitata in una delle giornate in cui attori in costume  animano alcune stanze del castello. Parlano benissimo l’olandese. Io no.

Castel & landscape: kastel Doorwerth viene segnalato in binomio. 

Il paesaggio circostante è bellissimo, anche la strada per arrivarci, una galleria tra gli alberi.  Non c’è bisogno di conoscere la lingua per leggere il paesaggio.  Incantevole.  

Altre due grandi città dei paesi bassi: Nimega e Maastricht

Nimega è una città universitaria. Immagino tutti i ragazzi rintanati negli studentati a fare burdello: è domenica e non c’è anima viva. Le strade sono completamente deserte e cambia poco anche di lunedì, anche nella strada dello shopping.  Anche nei Paesi Bassi ad agosto le città si svuotano. Completamente.  


Forse per meglio farsi notare, i ristoranti e i bar aperti hanno tutti delle file di luci accese. 

Lanterne gialle. 

Si sorprendono del nostro ingresso  gli addetti alla visita della torre della cattedrale, la Stevenstoren: con questo tempaccio non aspettavamo nessuno, dicono. 

Ci apre il portone e ci accompagna un gentilissimo  ex professore, prodigo di spiegazioni in inglese essenziale (come parlare a bambini).

Il vento e la pioggia sono sferzanti. 

A Nimega i tetti degli edifici storici sono in ardesia, il lungofiume è in mattoni grigi, l’acqua del fiume è scura, anche il verde – e Nimega è la città più verde d’Europa, si dice -  è cupo. 

Anche a Maastricht il sole è ritroso, splende solo dopo scrosci che svuotano improvvisamente le strade. Si sta appiattiti sulle soglie dei negozi o dei palazzi, come sogliole sul fondo del mare. 

Maastricht conserva parte delle mura antiche. Mi sorprendono  finestre di abitazioni incuneate nelle feritoie delle mura. 

Da mura difensive a pareti di appartamenti. 

Da magazzino ad archivio a libreria: queste le trasformazioni della chiesa gotica dei domenicani, sconsacrata dal 1794. 

Peccato, una bellissima chiesa. Certo, meglio libreria che magazzino. Ma meglio ancora sarebbe stato biblioteca pubblica, tempio dei libri piuttosto che mercato. 

La basilica di San Servazio  - che nome, che nome, il santo della chiave - e la concorrente protestante  Sint-Janskerk dominano  una grande piazza in un angolo del quale ci sono delle strane sculture, memento del carnevale. 

Dicono che sia sentito quasi come a Rio – con travestimenti più pudici, immagino. 

Anche Maastricht è verde. 

Il parco cittadino, stadspark,  accoglie innumerevoli tipi di volatili – ci sono tanti alberi con le casette per uccelli, sculture scolpite nel legno, un triste orso con mani e piedi al posto delle zampe nei pressi di quella che un tempo era la fossa degli orsi, laghettini e fontanelle. Un luogo ameno. 

Però davvero senza sole tutto diventa triste. 

E’ forse il sole che ha  brillato senza nascondersi per alcune ore su Roermond, città di cui non conoscevo l’esistenza, a farmela sembrare bella e briosa. 

O forse anche la presenza di “trappoline per turisti”, come gli occhiali da sole giganti davanti al Muziekkoepe,  o la sedia a sdraio titanica  o la cartolina enorme in cui infilare la testa per fare la foto ricordo.  

Ma anche la bella piazza del mercato, il municipio e la torre orologio con figure che fanno girotondo ogni ora accompagnate da scampanio e musichetta. 



Un’ultima annotazione. 

Tranne che al Markthal di Rotterdam, dove la varietà etnica   è accentuatissima [si può scegliere di mangiare qualunque cosa – greco, indonesiano, cinese, messicano etc etc – preparato e servito da greci, indonesiani, cinesi, messicani etc etc],  ho notato pochissimi immigrati. 

Boh, chissà perché. 

Il semel in anno del 2023 è andato. (andò)

Il vertiginoso turbinio dei funesti  eventi mi impedisce di pensare, anzi, di programmare il prossimo. 

Il pensiero c'era già. Ah, il vicino oriente...




La fredda estate nei Paesi Bassi. (1)

La fredda estate nei Paesi Bassi. (2)

La fredda estate nei Paesi Bassi. (3)

La fredda estate nei Paesi Bassi. (4)



















La fredda estate nei Paesi Bassi. (4) Urk, Giethoorn, Thorn, Valkenburg aan de Geul

Flevoland – che nome evocativo – è la dodicesima provincia dei Paesi Bassi.

E’ terra strappata al mare, una grandissima isola artificiale.

Urk, ora nel Flevoland, prima era un’isola. Avevo letto della resistenza delle tradizioni locali: effettivamente la bandiera con il pesce sventola un po' dappertutto, ma di uomini con l’orecchino a forma di àncora ne ho visto solo uno. 


Il vento frustra le dune e le vele delle imbarcazioni nuove e antiche, eppure c’è chi ha il coraggio di immergersi nell’acqua scura. Altre tempre. Rimpiango di non aver portato il piumino pesante in valigia.


Non c’è molta gente. L’unica fila è davanti un localino che vende pesce fritto.

In ogni città o paesino dei paesi bassi la fila è sempre lì, davanti ai furgoni che vendono pesce fresco o già cotto. Sulla cucina olandese è meglio che non dica nulla.

Giethoorn è sicuramente il paesiello più famoso, il villaggio auto free, solo canali e ponti.

Però. Che medaglia dalle facce opposte  per i pochi abitanti. Ricchezza e disagio.

Una fiumana enorme di turisti – asiatici tanti, tanti – ingombra i vialetti e i pochi ponti percorribili. Le abitazioni su zolle di terra tra i canali, hanno le catenelle sui ponti d’accesso, o i cancelletti, eccezione olandese per tener freno all’invadenza del branco.


Per non dire delle barche, barchetelle, barconi che in fila indiana attraversano i canali. E sono arrivata sul finire del giorno. Non oso immaginare lo scenario nell’ora di punta.

Un’oasi di pace trasformata in giostra.  


Thorn è un altro villaggio “anomalo”. Per molti secoli, fino all’occupazione francese nel 1700,  è stato  un principato governato da una badessa. 


Un’enclave teocratica abbastanza liberale per i tempi. La abitazioni che circondano l’abbazia sono tutte bianche. 

Vicino Thorn c’è una spiaggia sul fiume.

 Anche qui, con la pioggia intermittente, accanto  agli ombrelloni hawaiani con il tetto di paglia prendono l’aria aspiranti bagnanti. 

Thorn è proprio sul confine con il Belgio. La riserva naturale di Koningssteen è il confine. Si può  passeggiare con un piede nei Paesi Bassi e uno in Belgio su una stretta lingua di terra tra i canali che forma la Mosa.

Adoro le terre di confine che non hanno confini.

Anche Valkenburg aan de Geul è una piccola città a qualche chilometro da Maastricht, vicinissime entrambe  sia al Belgio che alla Germania. In posizione sopraelevata. Collina.


E’ questo che la rende superattrattiva per gli olandesi? Ci sono tantissimi turisti locali. Ho contato più ristorantini lungo la strada principale che a Maastricht.

Ma oltre le rovine del castello – rovine, proprio all’inglese -, alle cave di marna trasformate da guide preparate in meraviglie turistiche (non ho capito una mazza, ma posso dedurre la bravura della guida dalla teatralità dei gesti e dall’attenzione degli altri visitatori, bambini compresi) e alle terme di recente costruzione non ho visto  altro.

Ma sono distratta e anche poco preparata.


La fredda estate nei Paesi Bassi. (1)

La fredda estate nei Paesi Bassi. (2)

La fredda estate nei Paesi Bassi. (3)

La fredda estate nei Paesi Bassi. (5)

La fredda estate nei Paesi Bassi. (3) Olanda Meridionale

Visitata già Amsterdam, la più bella – e ora lo posso dire con assoluta certezza – città dei Paesi Bassi, sarebbe stato bello fare puntatina in tutte le altre  province olandesi.

Nonostante la piccola estensione del territorio e le distanze relativamente brevi, ci sarebbero voluti almeno 20 giorni, tappe di avvicinamento escluse.

Molte province dei Paesi Bassi vengono sacrificate al giogo del tempo e del portafoglio.

Si comincia dall’Olanda Meridionale. Geervliet è un piccolo borgo ad una ventina di chilometri da Rotterdam.

La casetta in cui abbiamo alloggiato era un tempo un pollaio, immersa in un enorme giardino, alle spalle il mulino a vento, di fronte il campanile della chiesetta.

Le galline, considerate dei pet – hanno anche i nomi, impronunciabili naturalmente – razzolano quiete e discrete.

Un’oasi di pace.

Di contro non immaginavo le strade/autostrade  olandesi così tanto trafficate. Nu burdell di auto, camion, file ai semafori, agli incroci, sui ponti, per entrare e uscire dai parcheggi.

Dei malori delle grandi città gli olandesi sono immuni al senso di insicurezza.

Nessun  cancello, recinto, muretto, filo spinato, né siepi altissime  a chiudere le villette e le basse abitazioni.

Nessuna inferriata o grata alle finestre -  larghe finestre alla quota stradale - nessuna porta blindata.

A Brielle – che mi fa pensare all’Irlanda, non so perchè -  sul marciapiede, davanti ad una finestra, uno scaffale con tanti barattoli di marmellata home made, una scatola di latta e un cartello con l’indicazione dei prezzi. Nessuno a vigilare.

Scegli il vasetto, lo prendi, metti i soldi nella cassetta e te ne vai.

Un modello improponibile alle mie latitudini.

Sui davanzali delle grandi finestre, schermate solo talvolta da tendine decorative, non mancano vasi con e senza fiori, piantine, statuine, sculture, cazzimpocchi.

Talvolta i davanzali sono talmente affollati di cose che viene il dubbio se dietro la finestra ci sia un’abitazione privata o un negozio di chincaglierie.

Poi butti l’occhio oltre il davanzale e vedi il divano su cui qualcuno legge o guarda la tv.

[penso ai bassi napoletani e alla mia inversa percezione della protezione dell’intimità] 

Balconi, cortili, terrazze, giardini, sono tutti attrezzati con poltroncine, tavolini, sedie a sdraio e ombrelloni.

Vorrei sapere quando se ne vedono bene, con la pioggia semiperenne.

Pioggia fine fine, a volte a scrosci, e un attimo dopo esce una lenza di sole, anche se per lo più tutto è grigio e per scattare una foto si aspetta l’attimo fuggente.

Rockaine è una delle località balneari più famose dell’Olanda meridionale, ci sono centinaia di lettini ripiegati uno sull’altro, ombrelloni a palma tristemente vuoti, ma un cuofano di gente – pochi in tenuta da bagno in verità - che si rilassa al freddo vento.

A me piacciono le dune e gli uccelli padroni della spiaggia.

Fingo di non vedere lo stabilimento balneare.

Se l’Olanda avesse dalla sua anche il clima benevolo, sarebbe davvero quasi un paradiso terrestre.

Un paradiso sottile come una piadina romagnola.

Mi spiego come un cocente desiderio di alterità la smisuratezza dei nuovi palazzi di Rotterdam (e non solo di Rotterdam), o la fama di Valkenburg -  una folla esagerata, molto più che nelle grandi città -  un paesino collinare nel sud dell’Olanda, che non mi sembra davvero niente di che. Ma il paesaggio è appena appena più verticale. 

A Rotterdam lo spirito di Escher, la compenetrazione tra più mondi, aleggia su tutta la nuova architettura.


I vetri e gli specchi sui grattacieli e sull’astronave che è il  depot Boijmans (una meraviglia), nel Markthal (il dentro visto da fuori e il fuori riflesso sul dentro) e anche, per le prospettive improbabili, nelle case cubiche.



Gli edifici o complessi di edifici iconici di Rotterdam sono davvero imperdibili.

A Gouda il giovedì, nella stagione estiva, nella piazza davanti allo Stadhius, si inscena con tanto di carretti e cavalli e giovani vestiti da antichi casari con zoccoli e cappellino, la vendita del formaggio.

Le grandi forme di plastica formano due ali di fronte al municipio. Il vero gouda si acquista alle bancarelle, che fanno ala alle ali del finto formaggio.

La pioggia non ferma la vendita né la messa in scena.  Ma con la pioggia è tutto più triste.

Lo stadhius, pur con le bandierine rosse, ha un inquietante aspetto gotico.

E meno male che la maggior parte dei Gouda hanno la paraffina gialla e non nera come l’Asiago o il Bella lodi. 

L’Aia, anzi Den Haag è una città  molto elegante, un salotto buono.


Lo si nota anche dai tipi seduti ai tavolini dei locali: in nessuna altra città dei paesi bassi ho notato così tante signore con  cappelli a faldone e  foulard (Ambrogio, un cioccolattino), e non solo nei dintorni della strada delle ambasciate.

Escher in Het Paleis (quanti disegni italiani!) e il Panorama Museum sono due musei assai belli.

Certo, il costo del biglietto del Panorama Museum sembra un po' esagerato per un solo quadro (c’è anche altro, ma è decisamente trascurabile), ma di dipinti così  non credo ce ne siano altri. Non immaginavo di trascorrere più di un’ora a guardare una sola opera.

Un po' per il trastulliamento davanti alle prospettive aliene di Escher, un po' per l’osservazione minuta del quadrone di paesaggio di Hendrik Willem Mesdag (14 metri di altezza e 120 metri di circonferenza), la riviera della città me la sono persa.

Vabbuò. Ma tanto per cambiare, anche a Den Haag piove e fa freddo.


La fredda estate nei Paesi Bassi. (1)

La fredda estate nei Paesi Bassi. (2)

La fredda estate nei Paesi Bassi. (4)

La fredda estate nei Paesi Bassi. (5)

La fredda estate nei Paesi Bassi.(2)

mercoledì 25 ottobre 2023

La fredda estate nei Paesi Bassi. (1)

Comincia a far freddo.  A questo punto non resta che ricordare i mesi estivi,  luglio e agosto 2023, in Olanda. Un ritaglio d'autunno in mezzo ad una  lunghissima estate. 

Arrivare con l’auto direttamente nei Paesi Bassi, (epi)centro del viaggio di quest’anno, non sarebbe stata  una pazziella, una vacanza, ma una smazzata  (manco i camionisti). 

Diviso il percorso e  moltiplicate le tappe, il risultato è stato tanti viaggi in uno.  Paesi Bassi e verso e da i Paesi bassi:  Modena, Como e dintorni, Colmar e dintorni, Friburgo e dintorni.  



Modena non era prevista, è stata infilata pochi giorni prima della partenza  [la vita è breve, meglio coglier al balzo tutte le occasioni], per fare l’esperienza di un ristorante stellato (monostellato, il firmamento non è alla mia portata). 

Sotto l’afoso  solleone, con pochissima gente per strada, mi ricorderò dei portici, rifugio ombroso, della memoria partigiana incardinata sulla torre Ghirlandina, simbolo della città, la cui visita – mappata di scalini – è stata ripagata non esclusivamente dalla vista a 360°  ma da un sollazzevole venticello percepibile solo alla  quota dell’ultimo piano.

[e le zanzare, ma quello sono un flagello che non ha nazionalità né campanile]




Del  variegato piccolo assaggio di alcune località del lago Lario, Abbadia Lariana, sul ramo di Lecco, è stata una casuale e bella scoperta. 

Spiaggia semideserta, più anatroccoli che persone, acque trasparenti, alberi, aucelluzzi.  Pace. 

Sarà stato il giorno infrasettimanale, sarà stata la tempesta mattutina che ha scoraggiato le gite fuori porta, sarà che la fortuna qualche volta passa. 

Qualche volta. 

La visita di Villa Monastero a Varenna, programmata in anticipo,  zompa: parcheggi full.  E allora si infila l’alternativa: Fiumelatte, il fiume dal corso più breve che c’è. 

Infatti non c’è proprio. 

Asciutto, completamente secco. Anche a risalire verso la sorgente, in una stradulella dove l’incuria impera,  si coglie solo un leggero umidore della terra che la rende culla per zanzare. 

L’arrivo in anticipo al punto di imbarco auto  da Varenna per Menaggio offre  la possibilità di ingannare l’attesa facendo un rapidissimo giretto. Un tempo  era borgo di pescatori. Un tempo. 

La passeggiata sul ponte degli innamorati ha poco di romantico, nel frenetico andirivieni di turisti; l’immaginazione ha la meglio sulla realtà. 

Menaggio, sul ramo di Como, è affollata di auto, di persone, di alberghi e ristoranti. 

Argegno è un borgo meno caotico. Un bel colpo d’occhio da lontano, ma aggirandosi tra i vicoli stretti del centro storico la percezione è di trascuratezza. 

E’ stata un’ottima scelta aver preferito come base  un paesino delle montagne, nella Val d’Intelvi, piuttosto che uno dei rinomati paesi fronte lago. 


[La folla s’addice ai centri commerciali.]  

E’ a Cerano d’Intelvi che mi sono resa conto della impari lotta – cronopio v/s fama – tra l’ambizione a voler essere  montanara e le abitudini cittadine. 



Camminate?
Chiede Orso, l’oste allevatore.Il Sentiero delle espressioni è la meta. 

A 20 minuti, recita il cartello, inizia il sentiero. A 5 minuti da lì, con il fiato corto e innumerevoli inciampichi e ruciulamenti, il dietro front. 

Obiettivo fallito ancor prima di avvicinarlo, stante una ripida salita sterrata,  adatta agli zoccoli delle  caprette, a piedi addestrati e non  ai miei sandaletti.

Eppure è  un sentiero facile. Ma quali camminatori. Passeggiatori urbani.

Urbani e di pianura. 

Liscio il caffè? Ho pensato che l’alternativa potesse essere schiumato, macchiato, lungo. Gli anziani a colazione lo bevono con la grappa.

Mio nonno  qualche volta, quando non era troppo vecchio e io assai bambina,  aggiungeva l’anice al caffè.  Poi di caffè corretti dalle parti mie non ne visti più.

Como città non avrebbe meritato uno sguardo di sfuggita. 

Meglio poco che niente:  Villa Olmo e la passeggiata Gelpi, il verde – alberi, panchine -  che punteggiano la cittadina sono rilassanti anche se animati;  freschi, belli. 

Molto meno attraenti le file maestose sotto il sole cocente agli imbarchi per i traghetti: i nebulizzatori proprio sull’uscio della biglietteria mentre il serpentone umano si allunga per metri e metri mi sono sembrati quasi uno sfottò [il premio per aver tanto patito]





domenica 25 giugno 2023

Un anno dopo. Trieste, Plivtice, Dubrovnik

 

Non ricordo più perché non pubblicai il racconto del viaggio dell’anno scorso.

L’ho ritrovato, mettendo ordine nel caos del desktop del pc, in una cartella nella quale non avrebbe dovuto esserci.

Forse avrei voluto scrivere altro.

(mancano note su Sibenik, Orosac,  Spalato)

Ora non posso aggiungere nulla, ma non voglio tenerlo da parte.

Riprendo la storia, metto una passerella  tra l’estate scorsa e quella che sta iniziando, senza guardare il vuoto sotto. 

 

Luglio/agosto 2022

 

In principio avevo pensato a Bosnia e Croazia.

Tre  i luoghi  per  determinare l’itinerario: laghi di Plitvice, Dubrovnik, Sarajevo.

Natura, memoria, storia.

Plitvice è nella lista dei  posti da visitare: in quella lista uno ne  spunto e venti ne aggiungo (non mi basterà una vita per accorciarla).

Dubrovnik è la madeleine:  quanto dei ricordi sopravvive a tanti ma tanti anni?

Era ancora Yugoslavia quando ci andai la prima volta.

A Sarajevo – che insana smania – avrei fatto pellegrinaggio tra i segni del conflitto balcanico.

Poi la guerra è arrivata di nuovo in Europa: nei primi mesi la notizia era quotidiana, anzi, era  cronaca minuto per minuto.

Mi è passata la voglia di incontrarla anche nei simulacri.

Saltata la Bosnia, l’itinerario si è fatto leggero: qualche città, un’isola, più mare.

Prima tappa, non solo di passaggio, Trieste.

Trieste è una città di mare e di confine, mobile e varia come le strade del centro che sono saliscendi e spesso  te lo scordi di arrivare in due minuti  da  A a B, punti distanti in linea d’aria 100 metri: nessuna strada diretta, ma circumnavigazioni dell’isolato in salita e poi in discesa e ancora in salita e poi in discesa.

Meno male che c’è l’ascensore del parcheggio San Giusto, compensa in parte lo spolmonamento.

Il corridoio che porta all’ascensore è stretto e lungo. Su una parete ci sono bei murales: polpi e navi, chiese e gabbiani, vicoli e pesci.

Trieste è una vera città di mare.

[Napoli non lo è. Il mare non bagna Napoli: oltre l’Ortese, la rabbiosa esperienza.

Vide 'o mare quant'è bello, spira tanto sentimento.

Vedi, vedi il mare,  ma non lo vivi, a meno che non  scelga un carestosissimo lido o il mappatella beach, uno ‘ncuoll a n’ato in un glommero di spiaggetta.]

Il lungomare di Barcola (anzi, da Grignano a Barcola) è un lunghissimo solarium.

Sul marciapiede asciugamani, seggioline, lettini. Mancano gli ombrelloni, ma gli alberi  provvedono all’ombra.

Ci sono le scalette per entrare in  acqua - dagli scogli sarebbe poco agevole -  e anche le docce.

Gratis.

Un euro invece per l’ingresso nei bagni La Lanterna Pedocin.

Da una parte donne e bambini, dall’altra uomini. Non solo separati in spiaggia, ma anche in mare, dove per molti  metri si erge un muro divisorio.

Allungando l’occhio, il lato maschile è semideserto, invece quello opposto un vero carnaio.

Sotto il porticato decine di donne velate, vestite da capo a piedi.

Val la pena fare capatina – la struttura è ferma all’anteguerra anche negli arredi - ma l’ insofferenza verso il sovraffollamento, il principio dell’apartheid e della contraddizione mi ha spinta ad andare via dopo dieci minuti.  

(Barista e bagnino apparentemente uomini. Se il principio del genere vale per gli ospiti, perché non vale pure per i dipendenti?)

Ma tant’è, di mare da vivere  ce n’è per tutti i gusti.

Anche con il pescaturismo.



E’ una città di confine Trieste, fluida e accogliente, come i suoi abitanti. 

Fanno confidenze i triestini.

Mauro, il pescatore di Muggia, che guida la sua barchetta fino all’allevamento di mitili  non risparmia  spiegazioni, ricordi, aneddoti personali; Andrea che lavora al faro della Vittoria è stato a Napoli per verificare se Gomorra fosse solo finzione; Lucio, che non ha più voglia di gestire il b&b da quando non c’è più la sua compagna, guardando con occhi spenti il frigo, la poltroncina, il portafrutta e le foto  dice le storie che ci sono dietro ogni singolo oggetto; Paolo, l’oste,  in menù ha solo quello che ha voglia di cucinare – c’è la pasta che ho fatto a mano, c’è il pesce - e come se lo conoscessi da quarantanni  incatena  racconti sul Carso e sull’Istria  dei suoi nonni, poi,  solo se gli stai simpatico,  tira fuori la  Brinjevec *riserva personale – bottiglia di vetro avvolta nella carta di giornale.

(meno male che gli sono simpatica)

Trieste è i suoi castelli: Duino, Miramare e San Giusto.

L’ultimo è una fortezza più che una dimora, tant’è che la visita, nei fine settimana dei mesi estivi è guidata da  

una compagnia in costume che  racconta l’arte delle armi (ehhh, inquietante ossimoro).

Duino e Miramare erano residenze: delle carte da parati abbinate ai tendaggi non me ne può fregar di meno, ma che meraviglia i panorami dalle finestre.

Il parco di Miramare è aperto e gratuito, e dalla panchina al centro dell’insenatura delimitata da un lato dalla Sfinge e dall’altro dalla grotta di Carlotta si può stare ore a guardare il vento che increspa la superficie del mare in moti che ricordano il volo degli storni.

Per entrare nel parco del castello di Duino, che è privato, bisogna acquistare il biglietto.

Ma c’è il sentiero Rilke che permette di vedere oltre gli orizzonti dei castellani.

[Gli occhi sono le vere finestre.]

La scelta tra natura e “cultura” innesca il dubbio amletico.

Ma se penso da una parte alle mastodontiche navi da crociera che stanziano ai piedi di piazza Unità di Italia, chiudendo a quadrilatero il salotto buono dei triestini e oscurando il tramonto,  e dall’altra  al silenzio, ai colori, alla quiete della foce dell’Isonzo e poi le vo’ comparando, il dubbio si scioglie.




 

Della Yugoslavia della mia giovinezza ricordo  laghi e   cascate –  pessime fotografie ne sono sfocata testimonianza – ma non i loro nomi.

Forse, consultando google map, quelle di Kravice, ora Bosnia.

Chissà come erano i laghi di Plitvice prima di diventare una destinazione cult del turismo di massa.

Sono una meraviglia anche con miriadi di omini che transitano sulle passerelle e attraversano i  sentieri.

(frotte scaricate dai trenini elettrici e dai  barconi che fanno spola tra le sponde dei laghi inferiori).

L’esplosione di colori – tutte le sfumature del verde e del blu -, il continuo ohhh per il sorprendente susseguirsi di cascatelle, cascatone, rivoli, luccichii, trasparenze, alberi sott’acqua come relitti di velieri… […] confermano i fiumi di parole versati sulla loro bellezza, nonostante l’affollamento.





Chissà quale scenario si apre in autunno.

(spuntato dalla lista, rimesso nella lista)

 

L’Adriatico ha figlio e figliastro. Ad uno ha regalato migliaia di isole e isolotti, insenature, fiordi, penisole, frastagliature.

All’altro quasi solo sabbia piatta.

Quando si ha troppo a disposizione si ha l’imbarazzo della scelta.

Sibenik, Orosac - Dubrovnik, Bol sull’isola di Brac e Trogir, quattro le tappe da cui se ne diramano altre: simili per certi versi.

Nessun racconto cronologico, né logico.

Tracce sparse da adesso.

 

Chiare fresche acque.

Il mare in Croazia è trasparente e bello dovunque sono stata. Magari è complice il fondale,  raramente di sabbia, solo sassi e rocce.

(no, dovunque no. A Ciovo, isola appendice della città di Trogir, collegata con un ponte alla terraferma, il galleggiamento di munnezza varia e assortita in più di una caletta mi ha costretto a girare la capa del cavallo. Le correnti sono infami).

Comunque non vale mai la pena fare, [come ho rifatto io,  non mi ha insegnato nulla l’esperienza greca, Itaca, ah, Itaca], i tour organizzati  in barca per ammirare  mitiche lagune o isole iperdecantate: meglio utilizzare i traghetti di linea (Jadrolinija for ever) e stazionare una giornata su ogni isola piuttosto che il mordi e fuggi di 30 minuti a scalo.

Dell’ultimo tour in barcone, da Trogir alla laguna blu e isola di Solta, mai dimenticherò  la puzza di sgombro arrostito    menù di pesce alternativo al petto di pollo incluso nel biglietto sotto la voce “pranzo a bordo” – che ha appestato l’aria, nonostante il mare aperto e il vento, per tutta la durata del viaggio di andata.  

Avrei dovuto portare il binocolo per guardare la laguna blu: a malapena si intravedeva tra la folla di motoscafi e barchetelle.

In Croazia le spiagge sono quasi tutte libere, ma il parcheggio è una croce: o a pagamento, o selvaggio, o un terno al lotto, o distante assai, ma proprio assai dall’agognata meta o tutte queste cose messe insieme.

Per qualcuna ci si deve addossare la croce.

Della famosissima   Zlatni Rat, o Corno d’oro, nell’isola di Brac, non posso che dirne bene.



Ci sarebbe voluto il drone  [maledetti ladri,  quello si sono fottuti insieme a poche bagattelle poco prima di Natale mettendomi la casa a soqquadro], perché a livello del mare non si percepisce interamente la sinuosa forma.

Ma io so di essere stata proprio sulla punta della lingua di sassolini, io sola, alle 7 del mattino, un puntino sulla punta.

Meraviglia ed estasi.

 

Kuna e Euro.  

Non so se dirmi fortunata o scalognata – opto per la seconda – ad aver fatto l’ultima estate in Croazia munita del doppio portafoglio, uno per le kune e uno per gli euro.

A pagare in euro o con la carta ci si rimette sempre, gli uffici di cambio fanno un po' come gli pare e se hai fortuna riesci a spuntare quasi il tasso ufficiale.

Sarà l’ebbrezza dell’allineamento all’euro, sarà che i turisti sono arrivati in tanti dopo la pandemia, sarà così o pomì, di fatto la Croazia, o meglio la costa Dalmata, non è affatto economica.

Non so come facciano e come faranno a far quadrare i bilanci le famiglie, considerando gli stipendi medi.

Diana, la proprietaria del monolocale in cui pernotto  vicino Dubrovnik – una parte del suo garage riconvertito, carino e curato -  dice che i prezzi sono aumentati esageratamente, e per fortuna sulla costa c’è il turismo, ma nell’interno… lasciando i puntini sospensivi.

 

Katarina, Dubrovnik, la guerra.

Katarina era timida con il suo cartello in mano zimmer, al porto di Dubrovnik, tra tante donne con gli stessi cartelli. La sua amica non aveva posto per tutti, così la spinse avanti.

La sua casa era in collina, costruita mattone su mattone.

Il secondo piano era nuovissimo.

Penso che fummo i primi ad alloggiarvi.

Lei, il marito e i due figli, il primo anno furono invisibili. La cucina e il bagno condivisi  erano sempre liberi.

Penso che facessero la posta, li usavano appena uscivamo da casa.

Ci tornai altre due volte, prima della guerra.

L’ultima volta, erano ospiti anche due ragazze serbe.

A me erano simpatiche.

[Natascia e Daliborka. Incredibile. Come sono risaliti a galla questi due nomi e volti, non me lo spiego]

Katarina non parlava inglese, ma la gestualità e un dizionario italiano-serbocroato divennero gli strumenti di chiacchiere e inciuci, sotto il portico, la sera mentre aspettavo che tutta la truppa fosse pronta per uscire.

Quando passavano le ragazze serbe, Katarina la mite arricciava il naso. Non le piacevano. 

Loše.

Non ho mai capito perché.

Quando scoppiò la guerra, prima dell’esistenza di  whatsapp e del web (nel pleistocene), scrissi due lettere alle quali non ebbi risposta.

Non ho più l’indirizzo.

Ho girato su per le colline, ma non ho riconosciuto la casa, ora ce ne sono troppe.

Le uniche cose che posso sovrapporre alla mia memoria sono le mura del centro storico, lo  stradun e il maskeron, la pietra a forma di gufo, incassata in un muro e levigata dalle mani e dai piedi di chi la tocca ancora pensando che porti fortuna.

Dubrovnik straripa di case, di turisti, di ristoranti e di localini, di barche.

Non mi appartiene più.

Il mio ricordo si è fatto scheletro.

Come  a Kupari.

Che strano posto, Kupari, ad una decina di km a sud di Dubrovnik.

Una baia esclusiva intorno alla quale era stato costruito un complesso turistico lussuoso, tanti alberghi, una villa.

Degli alberghi, diventati sede dell’esercito yugoslavo nella guerra d’indipendenza, non restano che gli scheletri.

Sventrati, svuotati: gigantesche carcasse  fanno da sentinelle  alla baia. Non posso fare a meno di guardarli.



Impensabile un ripristino. Saranno abbattuti, prima o poi.

Di quel monito non resterà più niente.

 

Finisce qui. Mancano note su Sibenik, Orosac,  Spalato.

Ora non posso aggiungere nulla, ho da pensare al domani.  

lunedì 30 agosto 2021

Viaggio in Grecia. Anno II era Covid. Città macedoni e altri luoghi ameni (3)

Salonicco, la principale delle città macedoni,  è strana.
Anzitutto nel nome. 
Per i greci è Tessalonica, non Salonicco. 
E’ ambiziosa – ma lo sono, in piccolo, anche le altre –,  boulevardizzata– penso al lungomare, una lunghissima passeggiata dove si  cammina, si guarda il mare, si va in bici o in skate e si può fare poco altro, un selfie davanti alla statua equestre di Alessandro Magno o agli Ombrelli di Zongopoulos, e penso anche alle stradone parallele che sembrano spaccare in due la città:  dall’ana polis, la città vecchia e alta, fino a piazza Aristotele, uniformata dalle facciate degli edifici che la racchiudono.

Quasi tutto nuovo, dopo l’incendio che  distrusse la città nel 1911. 
Però il passato – non solo quello remoto – il cantiere degli scavi del foro romano è un fermento – anche il prossimo,  fatto di urbanizzazione selvaggia, di case appoggiate a case e ad altre ancora, di catapecchie che rinnovano le finestre e conservano il tetto in lamiera, sbuca da ogni angolo. 
Tuttavia Tessalonica ha un fascino indecifrabile. 
E’ un fascino immotivato come il rito del guardare il tramonto, che spinge tante, ma tantissime persone a radunarsi sulle scale seminascoste che portano alla città vecchia, sulle mura del castello, alcune correndo manco stessero per perdere il treno, l’attimo fuggente che si rinnova ogni giorno,  e stare lì, da soli o in gruppo, a guardare la luce arancione obliqua scivolare sulla città.

Kavala sembra riprodurre in piccolo le contraddizioni di Salonicco: un lunghissimo lungomare,  le mura delle fortezza e il poco che ne resta a dominarlo dall’alto.
Una velleitaria fontana con giochi di acqua e luce nella piazza principale della città nuova. 
Il grande acquedotto romano stride – e si impone - tra gli edifici moderni e le case che sono incastonate in  alcune sue arcate. 

Xanthi è una cittadina universitaria, che ha vissuto la sua belle époque tra le due grandi guerre grazie al commercio del tabacco. 
Una città ponte tra Macedonia e Tracia, e in senso ancora più lato tra ovest ed est, dove la convivenza etnica era (è?)  la norma, e dove l’abito tradizionale e i comuni mestieri nascondevano le differenze tra ortodossi, musulmani, ebrei. 
Ora sono i tanti hijab a rivelarne la multiculturalità. 
Dopo la seconda guerra mondiale la decadenza. 
La memoria è affidata alla mappa della città, che segna in giallo gli edifici più antichi e al  museo di storia e di folklore, ospitato in uno tra i  pochi palazzi signorili che non sono  chiusi e abbandonati, ma ancora di più alla abnegazione dell’unico dipendente che abbiamo incontrato: accoglie ogni singolo visitatore o piccolo gruppo  a cui spiega la storia della città e del museo stesso. 
In inglese, of course, molto lentamente, of course. 
Mentre due persone girano tra le stanze, il solerte funzionario stacca il biglietto per i tre che hanno finito la visita  e si appresta a ricominciare il racconto per i nuovi due ospiti. 
Sette visitatori in due ore, un registro delle firme che rivela quasi solo lettere greche.
 
Edessa è su un altopiano non lontano  dai monti Voras, confine naturale con la Macedonia del Nord. 
E’ una città attraversata dal fiume Edesseos, le cui acque  scorrono in canali tra le strade cittadine e si radunano in suggestive cascate.
Il parco delle cascate è un luogo ameno, non lontano dal “quartiere” Varosi, il piccolo agglomerato di case che testimoniano la lunga dominazione ottomana, anche se quelle meglio conservate sono state massicciamente restaurate. 
Il parco delle cascate è un “giardino” cittadino, un luogo aperto dove poter passeggiare a tutte le ore. 
A pagamento e in orari determinati è possibile visitare alcuni piccoli musei e la “cava”, la grotta: dieci passi oltre il gabbiottino in cui è rinchiusa l’addetta alla vendita del biglietto di ingresso e non si va oltre. Una piccola cavità nella quale ammirare a distanza ravvicinatissima il  gocciolare dell’acqua sulle stalattiti. 
Il via/vai nel parco, molto contenuto in verità, si ferma alle prime due terrazze: man mano che si scende aumenta la trascuratezza: la scalinata in pietra è aggredita dalla vegetazione e dalle zanzare. 
Ed è un peccato, perché le due cascate gemelle sono quasi più belle di quella principale. 

Verghina e Loutra Pozar. Luoghi ameni.

Verghina è una frazione di Veria,  poche casette e campi coltivati ai bordi di un un micro reticolo di stradine. Ma sotto la terra gialla ci sono tesori. 
Gli scavi archeologici in quest’area identificata come l’antica Aigai, capitale del regno Macedone, hanno una storia non molto remota. 
Negli ultimi anni del secolo scorso è stata portata alla luce la necropoli, cuore del Sito Archeologico delle Tombe Reali. 
Il sito si espande in tutta l’area circostante: i resti del palazzo reale, del teatro, dell’acropoli, il cui attraversamento sotto il sole a +40° richiede uno spirito da Indiana Jones, ma imperdibile e poco faticosa (anzi freschissima) è la visita del  museo, costruito sotto il grande tumulo dove è anche la Tomba di Filippo II, il padre di Alessandro Magno. 
Sotto la montagnella dunque il museo, i cui spazi, corridoi, stanze, sono definiti dalle tombe. 
Nelle vetrine e nelle teche vi sono i corredi funerari e altri reperti, ed è impressionante la fattura delle piccole sculture in marmo e degli oggetti in oro, lamine finissime intagliate con stupefacente precisione naturalistica. 


Le terme di Pozar  -  circa 30 km a nord di Edessa - sono un’incantevole Spa naturale. 
Le sorgenti termali sono state “convogliate” anche in una struttura, ma i benefici dell’acqua – fiume, cascatelle, pozze calde e pozze fredde, oltre alla non trascurabile  frescura data dagli alberi,  sono alla portata di tutti perché l’accesso  al “bosco” è gratuito. 
Nell’area  ci sono un bar, un ristorante, le toilette e persino le docce, ma nulla impedisce di piazzare tavolino e sedie e fare un pranzetto piedi in ammollo sulla riva del fiume. 
Alla modica cifra di 2 euro a persona per 30 minuti si può entrare in una delle due  piscine esterne, vasche in pietra,  con acqua calda, caldissima. (entrata molto più agevole rispetto a quella nelle pozze  formatesi naturalmente nel  letto del fiume).
Sentieri di trekking partono dalla terme. 
No, non li ho percorsi. 
La goduria delle chiare fresche e calde acque mi ha trattenuto e intrattenuto in ammollo a lungo, molto a lungo. 

C’è in Italia un posto così, gratuito, con tanti servizi e poco affollato? Dubito, così come non ci sono in spiaggia lettini e ombrelloni gratuiti per i clienti che ordinano anche solo un frappè.

Non posso che esser ancora una volta contenta di aver potuto varcare i confini, di aver potuto scegliere dove andare.

Soprattutto andare. 



Viaggio in Grecia. Anno II era Covid. Macedonia. (1)

Viaggio in Grecia. Anno II era Covid. Monte Athos, gli ortodossi, la devozione popolare. (2)


Viaggio in Grecia. Anno II era Covid. Monte Athos, gli ortodossi, la devozione popolare. (2)

Del Monte Athos sapevo che l’accesso è rigorosamente vietato alle donne, anzi alle femmine considerando anche molte specie animali. 
Pensavo però che fosse un divieto riguardante l’area dei monasteri, e non quasi l’intero terzo dito della penisola calcidica, che ha una superficie di  335,63 km quadrati, maggiore di quella della repubblica di Malta. 
Un pezzone di Grecia che di fatto è uno stato a parte, lo Stato Monastico Autonomo del monte Athos. 
La separazione, chi lo avrebbe immaginato, è sancita non solo dalla folta vegetazione che ricopre le  montagne, ma anche da muri lungo il confine “marittimo”. 
Lunghe mura nell’acqua. 

[come può uno Stato moderno concedere così tanto spazio, nel senso concreto del termine,  a  entità religiose che  fondano la loro ortodossia sulla discriminazione di genere?] 

Sulla spiaggia di Komitsa, vicino al confine, lontano dagli sparuti bagnanti, sbarcano due monaci. Ad aspettarli un camioncino stracolmo di sacchi di patate. 
Almeno 6 volte la barchetta a motore dei religiosi fa spola tra la spiaggia e un non visibile attracco per portare i sacchi di patate nello Stato Monastico.  
Gambe in acqua nonostante la nera palandrana. 
Cappello calzato nonostante i 40 gradi. 
Sacconi sulle spalle nonostante la veneranda età. (Non si vedono bene, ma il barbone bianco non può mentire)
I pensieri rotolano senza ordine. Le hanno pagate le patate? Non possono coltivarsele le patate? Orano e poco laborano? Che mangiano i monaci se ogni scambio è così complicato, se  neanche le mucche e le pecore che fanno il latte possono circolare nel giardino di Maria? 

Mi è stato detto da chi è stato ospitato in un monastero e l’ha trovata esperienza straordinaria di rigenerazione,   che sulle coste del dito su cui svetta Monte Athos sbarcò  Maria (???), e i monaci si ersero custodi del sacro luogo, impedendo la contaminazione derivante da qualunque altro piede o zampa femminea. 
La persistenza di questa motivazione mi è incomprensibile tanto quanto le affermazioni talebane che i jeans sono sgraditi a Dio.
Ma tant’è. 
Monte Athos è una realtà della Grecia, e il suo fascino è proprio nell’essere caratteristica unica e specifica. 

D’altra parte, una sensibilità religiosa molto forte, almeno in questa parte della Grecia, è evidente dal numero smisurato di cappellette votive (Tabernacoli? Chiesette in miniatura? Casette per  le candele? Non ho idea di come si chiamino) che si ergono sui cigli  delle strade, davanti alle fabbrichette  o agli appezzamenti coltivati, sugli scogli a mare, nei condomini e, in forma più maestosa, anche inseriti nelle mura esterne delle chiese, una porta sempre aperta alla preghiera (o boh, all’accensione delle candele) anche quando il portone della chiesa è sbarrato. 


E il trend è in crescita: percorrendo la circumvallazione esterna di Salonicco si vedono molti "laboratori artigiani" che ne vendono in muratura (Cemento? Gesso? Terracotta?) di infinite fogge e dimensioni; ho scorto cappellette veramente grandi, ma grandi, piantate nei giardini di lussuose ville. 
La chiesetta in muratura in luogo del gazebo. 
O nel garage, a guardia dell'auto e della moto.